I vecchi ergastolani di porto Longone, poi porto Azzurro, il carcere di massima sicurezza dell’isola d’Elba, nel secolo scorso, a chi chiedeva quanto tempo ancora avevano da trascorrere dietro le sbarre rispondevano «oggi, domani e sempre». Per gli ergastolani nazisti la battuta va, invece, rovesciata: «né oggi, né domani e né mai». Ieri mattina è arrivata un’altra sentenza: al carcere a vita è stato condannato Alfred Stork, 90 anni, ex caporale della terza Compagnia del 54° battaglione Cacciatori delle Apli (Gebirgs-Jager).

Fu uno degli esecutori dell’orrendo massacro di Cefalonia. Cinque-seimila militari della divisione Acqui trucidati dopo che avevano alzato bandiera bianca. «Traditori, traditori» urlavano mentre facevano partire le raffiche mortali. «Il peggior delitto di tutte le guerre moderne», disse a Norimberga il pubblico accusatore generale Tajlor. Con la condanna di Stork, siamo arrivati ormai a 32 ergastolani di qualità fuori dal comune: la pena gli è stata inflitta, ma loro sono liberi e tranquilli nei loro paesi. La Germania si è liberata dal nazismo o, meglio, è stata liberata dal nazismo, ma protegge i «figli», anche se degeneri. L’Italia su Cefalonia tace. Sembra che istituzioni, governi, associazioni abbiano da nascondere qualcosa. Di sicuro avrebbero preferito che l’«Armadio della vergogna» non fosse stato mai aperto.

Al processo che si è concluso ieri hanno testimoniato alcuni reduci da Cefalonia, gente con un’età da 90 in poi. Ecco, qui di seguito, qualcuno dei loro ricordi.

Bruno Bertoldi, 94 anni, «compiuti» precisa, sergente maggiore del reparto autieri della divisione Acqui, comandata dal generale Gandini, decorato a suo tempo da Hitler con la massima onoreficenza tedesca, che gettò in terra e calpestò prima di essere fucilato. «A Cefalonia fu un massacro, presero la gente e la ammazzavano così, con le mani alzate…». «No, in quei tempi non si poteva parlare con i superiori, allora le nostre parole erano Signorsì, Signorno…». «Arrivò una squadra di Stukas sopra di njoi, erano una trentina…».

L’Italia del re e di Badoglio era fuggita e gli Inglesi non intervennero in aiuto della divisione Acqui che Mussolini aveva mandato in guerra senza artiglieria contraerea. “…arrivarono le prime pattuglie tedesche, furono falciati tutti quanti, tutti ammazzati, fucilati… Al capitano Pampaloni (Amos Pampaloni, un grande, non dimenticherà mai i suoi compagni, n.d.r.) spararono alla testa, ma la pallottola uscì senza fargli gran danno, rimase sotto i corpi dei compagni morti… Poi i greci lo aiutarono e lui combattè contro i nazisti. …ero anch’io sulla portaerei Garibaldi quando il presidente Ciampi venne a Cefalonia e chiese a Pampaloni cosa pensava di quel che era accaduto. E lui, ricordo, rispose «mi sento ancora perseguitato». «…come prendevano i prigionieri li fucilavano… avevano massacrato un battaglione del 317°, poi, a Troyanata fucilarono seicento soldati e li gettarono in un pozzo, togliendogli tutto quel che di valore avevano indosso… Erano gli uomini del maggiore Klebe che avevamo battezzato ’il macellaio’».

«Mi presero, erano in tre, il capo squadra mi guardò, era di Bolzano, aveva fatto con me la scuola di sottufficiali, mi dette due calci aggiungendo “porco italiano” e, poi, sottovoce “scappa, scappa”, mentre gli altri due urlavano al compagno “sparagli, sparagli”. Al generale Gherzi gli sfilarono gli stivaloni, dopo averlo ucciso. Un greco mi aiutò, dandomi i suoi vestiti, ma riuscirono a catturarmi. Poi seppi che i carabinieri erano andati dai miei genitori perchè firmassero l’atto di morte, in modo da prendere la pensione di guerra, ma mia madre si oppose sempre sperando che tornassi a casa. Infatti ci tornai due anni dopo, alla fine del ’45».

Mario Piscopo, 94 anni, già sottotenente. «Ho assistito all’uccisione dei prigionieri, venivano passati per le armi via via che venivano catturati. Cito un piccolo grande episodio. Ritrovai tra le vittime il mio compagno di plotone, il sottotenente Giuseppe Quattrone… Era stato colpito alla nuca: evidentemente, non appena si era arreso gli avevano sparato… Un’esecuzione vera e propria… Ci portarono su una carretta, passammo davanti alla “Casetta Rossa (lì fu sterminata la maggioranza degli ufficiali, n.d.r.), vidi una cinquantina di corpi.

Ed era appena l’inizio. L’ex sottotenente racconta del silenzio che circondò, e circonda, questa vicenda. Si incontrò con Simon Wiesenthal: ci disse, “attivatevi”. Ma che potevamo fare? Mica eravamo in Israele, eravamo in Italia, abbiamo fatto il possibile, monumenti ai nostri caduti, ma la televisione ha sempre poco curato i nostri interventi pubblici… Mi sentii dire “Ma che cosa possiamo fare, ormai siamo alleati della Germania”».

Il teste dà notizia di una lettera inviata il 12 maggio 2004 al presidente della Commissione parlamentare sulle cause dell’occultamento delle stragi nazifasciste: «Chiedo che venga accertata – è scritto – la responsabilità di coloro che nascosero quei fascicoli, consentendo l’impunità ai responsabili di esecuzioni di massa da parte di militari tedeschi che premeditatamente uccisero militari inermi». Come si sa, questa risposta, e sono passati quasi 70 anni dai fatti, nessuno l’ha ancora data.

Giuseppe Benincasa, 91 anni, musicante della banda della divisione Acqui. Esordisce il pubblico ministero militare, Marco De Paolis: «Signor Benincasa, allora…». «Non sento, sono sordo, mi posso avvicinare?» Interviene il presidente Antonio Lepore: «Rimanga pure lì, sarà il pm ad avvicinarsi a lei». «Veramente io non ho mai sparato, mi è sempre piaciuta solo la musica e le donne. Suonavo la tromba; ero la prima tromba solista… Abbiamo fatto una specie di referendum, come alle elezioni. Abbiamo votato sì e no e la maggioranza ha votato che dovevamo combattere… Allora mi hanno dato un fucile mitragliatore, ma io ci dissi che non so sparare. Allora mi dettero uno zaino pieno di bombe a mano che dovevo portare in prima linea. Però mi hanno preso e ci levavano tutto, portafogli, anelli. Mi presero pure una piastrina indorata con la Madonna, agganciata conilo filo di ferro… In quella zona quattrocento sono stati fucilati, fra i quali pure gente della Croce Rossa, con la fascia della Croce Rossa, fucilati pure loro. Poi sono riuscito a darmela a gambe, i greci mi hanno aiutato, sono diventato greco, mi hanno fatto la fotografia, sono andato al Comune, il sindaco ci ha messo il bollo e mi hanno dato il nome di Jorgo Jannapulo. Mi hanno portato da Jannapulo padre e gli hanno detto: “questo è tuo figlio”. Però lui ha risposto, “va bene che è mio figlio però non gli posso dare da mangiare perchè non ce l’ho neanche per me».

Arriva la sentenza, ovviamente in contumacia e probabilmente Stork non ne subirà le conseguenze, come i suoi 31 compatrioti. Lui ha fatto sapere, tramite i suoi avvocati, che gli dispiace aver dovuto sparare agli uffuciali italiani, ma poi si è saputo che i componenti dei plotoni di esecuzione erano volontari. Assai più netto fu il sottotenente Otmar Muhlauser, che comandò uno dei plotoni: «Era giusto che si fosse fatto così perchè gli italiani erano dei traditori». Della sua esistenza in vita si seppe nel 2002, ma il procuratore di allora, Antonio Intelisano, poi promosso Procuratore generale, attese che tirasse le cuoia, nel 2009, proprio duurante l’udienza preliminare. Marcella De Negri, figlia del capitano Francesco De Negri, trucidato a Cefalonia, e parte civile, inviò insieme a chi scrive questo articolo una lettera aperta al Capo dello Stato, pubblicata proprio sul manifesto. Ma non ci fu alcuna risposta.

* Franco Giustolisi, tra le altre cose, è autore de «L’armadio della vergogna»