Ho letto tutto d’un fiato il bellissimo libro di racconti di Giulio Questi Uomini e comandanti (ed. Einaudi, 18 euro) appena uscito in libreria. Conosco Giulio Questi da sempre anzi lui mi conosceva da prima che nascessi perché era amico dei miei genitori, con i miei due padri condivise l’esperienza partigiana e quella cinematografica, erano tutti e tre arrivati a Roma a fare il cinema poco dopo la guerra, erano tutti e tre del 1924 ed erano andati a fare i partigiani sulle montagne da studenti. Venivano da famiglie borghesi e colte, Questi, Vanzi, Zurlini, ed ognuno di loro, in qualche montagna dell’Italia del nord, aveva avuto il proprio battesimo del fuoco. Tutti e tre sono stati segnati da quell’esperienza per sempre.

La bellezza dei racconti di Giulio Questi è nella totale mancanza di retorica e di moralismo oltre che nella scrittura che scorre felice. Questi era già stato pubblicato sul Politecnico di Vittorini, è stato amico di Fenoglio. «Negli anni Novanta mi tornò prepotente il bisogno di non perdere la memoria della mia gioventù che si faceva sempre più lontana. Ricominciai a scrivere della Resistenza e sorprendentemente la scrittura mi venne facile come non mai. Recuperai tutto quello che potei. Provavo un bisogno impellente di memoria fondata su dirette emozioni personali». I fatti narrati nei 15 racconti non sono particolarmente eroici, proprio per questo hanno la dignità sconcertante della verità, è chiaro che passare dalle discussioni teologiche liceali sul libro messo all’indice di un oscuro teologo olandese che teorizzava la religiosità dell’omicidio fondata sul più assoluto dei peccati, così assoluto da sfiorare la veste di Dio Fede e Delitto mi suggeriva la santità dell’omicidio plurimo» alla realtà eterogenea della lotta partigiana, alle azioni immaginate e non riuscite come quella raccontata in Gioventù fanno riflettere il protagonista del racconto: «lasciai perdere per sempre i miei interessi giovanili per la teologia, facendomi la convinzione che non è necessario credere in Dio per portare a buon fine un omicidio».

Nonostante l’apparente distacco di questa dichiarazione emerge, soprattutto nel racconto Documenti che è il resoconto di alcune sedute psicanalitiche, l’angoscia per la violenza brutale: «I loro visi erano scarni, infossati. Malgrado ciò li riconobbi. Li avevo uccisi io negli ultimi giorni di guerra. Erano venuti a prendermi. Non mi pareva con astio. Semplicemente perché adesso toccava a me». Gli ultimi tre racconti del libro non riguardano la guerra partigiana, c’è Insonnia che sembra scritto per trasformarsi in materia filmica per un thriller, L’amico ritrovato in cui un affannato imbroglione, amico di vecchia data, racconta a Giulio di essere stato vessato da un suo sosia che egli riconosce in «Rico Danese, personaggio di un mio romanzo, mio alter ego, mio sosia, il compagno che credevo di aver perduto. Ora sapevo dov’era. Verrà un giorno che andrò a cercarlo. Varcherò a ritroso la linea d’ombra dell’equatore per ritrovare una volta per sempre tutto ciò che è stato». Il libro chiude con un ironico incontro/scontro tra Cleme, (Questi) in attesa di poter usare l’apparecchio telefonico di Dona Lucente, e il grande scrittore Gabriel Garcia Marquez che lo occupava: «Per quel telefono ancora occupato Cleme divenne ingiusto e rancoroso: ’Telefona, telefona! Se ne fotte, lui! Quando gli va, fa il giornalista. Dopo averci fregati tutti con Macondo..’Cleme pensava al plurale in nome di tutti quelli che, incantati dal libro, erano venuti in Colombia a cercare Macondo senza trovarlo».