A quarantatré anni, e con una prolifica vena creativa che ha ben pochi paragoni (trentadue titoli pubblicati in poco più di un decennio), Gonçalo M. Tavares è senza dubbio uno dei più importanti scrittori di lingua portoghese di oggi. Portato alle stelle dalla critica, elogiato da Saramago nel 2005 per il suo romanzo Gerusalemme al punto da preconizzargli un futuro Nobel, lo scrittore nato a Luanda in Angola nel 1970, docente universitario di epistemologia a Lisbona, ha sempre e consapevolmente giocato su più tavoli, dalla poesia al teatro alla saggistica (e lo si vede nella sua ultima fatica, Atlas do Corpo e da Imaginação).

Sul versante narrativo della sua opera, un percorso di marca decisamente tragica si intreccia a un altro che solo con una semplificazione colpevole si potrebbe definire umoristico, ma in realtà è composto da sguardi molto singolari sul reale tradotti, con leggerezza apparente, in apologhi volta a volta teneri o strampalati. Alla quadrilogia romanzesca del Regno (di cui fanno parte appunto Gerusalemme, tradotto in italiano da Guanda nel 2006, e poi Imparare a pregare nell’era della tecnica, uscito nel 2011 per Feltrinelli) si è infatti accompagnata in parallelo negli anni la serie ironica dei Signori: finora sono dieci i libri di brevi prose dedicati alle peripezie di questi curiosi personaggi che portano il nome di scrittori celebri, e forse qualcosa in più del nome. Quattro di essi – Il signor Calvino, Il signor Kraus, Il signor Walser e Il signor Valéry – sono ora riuniti sotto il titolo Lor signori (nottetempo, pp. 261, euro 16,50, disegni di Rachel Caiano) nella traduzione estremamente godibile di Marika Marianello. Il luogo in cui si aggirano queste silhouettes è il mondo utopico del Bairro – un quartiere della mente concepito come «una forma di resistenza alla barbarie», pronto ad arricchirsi anche nei prossimi anni, se dobbiamo fidarci dell’infaticabile Tavares, di sempre nuovi protagonisti che inscenano in brevi sketch il loro particolarissimo rapporto con il mondo.

Le passeggiate del signor Calvino inventato da Tavares rivelano un uomo il cui sogno è un mondo «finalmente, pensato e risolto, senza che fosse necessaria nessuna rinuncia umana», perché il problema è sempre «quantificare l’incontrollabile», «quello che non si può descrivere». La sua devozione alla pulizia delle idee, alla lucidità, non può cancellare «la breve distanza tra l’enorme e forte vita che ora possedeva, e l’enorme e forte morte che, come un insetto sconosciuto ma rumoroso, gli girava intorno in ogni momento». Ha un animale domestico che si chiama Poesia: «Fare il bagno alla Poesia non era facile; era come se lei resistesse alla pulizia, esigendo in modo altalenante una libertà impudica che solo la sporcizia permette».

Il signor Kraus e la politica dispiega una più feroce forza comica: nei paradossi scatenati dai dialoghi fra un idoleggiato Capo e i suoi intrepidi assistenti si svela come l’assurdo diventi sempre più naturale nel campo del potere: così il Capo imporrà alle persone selezionate nel campione dei sondaggi di telefonargli per chiedere la sua opinione; pretenderà di inaugurare persino le cose invisibili, come i quarti d’ora; giungendo poi a decidere di «andare avanti a gran velocità verso il passato». Per quanto possano incrociare altri personaggi e scambiare qualche parola con loro, gli strani protagonisti di Lor signori sono prevalentemente soli. E di una solitudine in trepidante attesa di essere riempita da un evento felice parla Il signor Walser e la foresta, dove il ritiro in una nuova casa è visto come la condizione essenziale per un contatto più autentico con l’Altro che dovrà arrivare. Ma a presentarsi alla porta sono dei pretestuosi operai che pezzo a pezzo smontano l’abitazione: emissari delle leggi del mondo o casuali disturbatori. Ciò nonostante, il signor Walser non deflette dal desiderio inscritto nel proprio personale «mondo nella testa» e se ne va a dormire, come sempre pieno di grandi aspettative.

Ma il più gustoso dei quattro è Il signor Valéry: la sua logica è letterale, manichea, inflessibile, e a volte i suoi comportamenti non paiono altro che esorcismi contro l’instabilità che si annida nelle cose. Il rischio (oppure «il Destino, che ignoro cosa sia») è il suo spauracchio: così imparerà a schivare una ad una le gocce di pioggia per non bagnarsi e non portarsi dietro l’ombrello («detesto gli oggetti brutti»), o a riservare a ciascuna delle cinque strade che percorre di solito un diverso paio di scarpe. Malgrado tutte le sue fisime, il signor Valéry non si sente completo solo con se stesso, e dovrà riconoscere: «È che assorbo troppo le cose».

Si può trarre piacere a diversi livelli dalla lettura dei signori: fingere di farsi affascinare dalla superficie più trasparente della favola (e che questa basti), amare il tratto puerile dei disegni, ma poi anche cogliere il sorriso implacabile quanto più distaccato che si cela sempre per Tavares dietro le avventure della logica in combutta con l’assurdo; e ciò anche al di là delle reali o presunte corrispondenze con i protagonisti intellettuali davvero inventati dagli scrittori a cui ha rubato i nomi (dal Monsieur Teste di Valéry al Palomar di Calvino). Il gioco dei signori ha tanto il sapore di un omaggio, miracolosamente scevro da cerebralismi postmoderni, quanto di una rispettosa, ironica ritorsione: si sente il riflesso di posizioni mentali che già da tempo hanno cittadinanza nella letteratura, e però vengono ora rinnovate con indubbio understatement e spregiudicata freschezza. In fin dei conti, in queste piccole storie si parla sempre di spazi, di rapporto tra la mente e lo spazio, tra una logica che mira dritto al suo scopo e gli ostacoli imprevisti che una realtà inesorabile frappone su quella linea retta. Tavares, allora, fa largo all’impensato, si diverte a smontare e a rimontare non la realtà ma le regole della sua percezione, sottraendovi frammenti e riposizionandoli altrove per vedere meglio, per vedere altro, secondo la metafora del caleidoscopio usata giustamente da Alberto Manguel per rendere l’atteggiamento fondamentale dello scrittore, la sua oltranza dissolta in formule di apparente bassa intensità emotiva.

Ogni momento di Lor signori nasce come in via sperimentale, per verificare secondo una serie di regole arbitrarie (e spesso strambe, proprio nel loro portare ciecamente a fondo i propri presupposti) un rapporto e un problema: nei confronti dell’infinita e incontrollabile varietà delle cose del mondo, come del potere, della solitudine, delle idee di ordine e disordine, della presenza degli altri. Ma non siamo in presenza di teoremi in forma di racconto. Gli sketch e le eresie logiche di Tavares sembrano piuttosto idee-gioco «per esercitare i muscoli della pazienza» e scardinare le abitudini di pensiero, piccole macchine generatrici di stupore, e infine disegnano anche una paradossale teoria in pillole della vita quotidiana. Anche nelle storie in apparenza più votate a una soluzione univoca c’è la cura di lasciare sempre uno spazio per l’indistinto, in modo che il dispositivo per pensare altrimenti continui a girare. In questa conquistata semplicità e nella capacità dell’autore di levare la mano dal congegno nel momento in cui è giusto che prosegua il suo funzionamento da solo, vale a dire nella mente di chi legge, sta anche molto del piacere intellettuale offerto da Lor signori.

Forse il pezzo più rivelatore riguardo la natura dell’operazione di Tavares è quello in cui il signor Calvino e il signor Duchamp giocano una partita le cui regole verranno da loro definite, a turno, soltanto dopo aver giocato. E ciascuno di loro cercherà di risultare vincitore, benché a posteriori. Viene chissà perché da pensare al Readymade malheureux che nel 1919 Duchamp inviò come regalo di nozze in Argentina alla sorella Suzanne (e se ne sarebbe ricordato Roberto Bolaño in 2666): si trattava di esporre un manuale di geometria alle intemperie, appendendolo ai fili del bucato; e lasciando che fosse il vento stesso a sfogliarlo e a scegliere i problemi da studiare, fino a far consumare interamente il libro, quasi per vedere se gli riusciva di capire un paio di cosette della realtà.