Un libro è un libro – come «la donna è donna» e «una rosa è una rosa» – ma un libro è anche più di un libro. Ora, se l’affermazione potrà sembrarvi banale, c’è però da aggiungere che non si riflette mai abbastanza sulla verità di definizioni di questo tipo.

Con una premessa: quella di dire che occorrerebbero esempi concreti per farlo capire senza equivoci, concretamente. E quindi per far prendere atto di quanto detto.

A Milano, alla Galleria Gruppo Credito Valtellinese (Corso Magenta 59, Palazzo delle Stelline), il 30 marzo inaugura una mostra dedicata ai libri, alle collane, alla storia della casa editrice Einaudi dei primi cinquant’anni, dagli inizi fino alla crisi (1933-1983) – la mostra si concluderà il 23 aprile.

Più nello specifico ad essere messa in mostra è la collezione privata di Claudio Pavese, i frutti della sua incredibile «archeologia editoriale», un lavoro capace di raccogliere negli anni circa tremila volumi e documenti della casa editrice (una parte consistente dell’intero catalogo storico) di cui sarà possibile vedere esposta una sintesi esemplare in circa trecento pezzi – la mostra è a cura di Andrea Tomasetig, librario antiquario, archivista, curatore e studioso di editoria di raffinata passione e precisa competenza, in collaborazione con Cristina Quadro Curzio e Leo Guerra; il catalogo della mostra, ricco di illustrazioni, comprende saggi dello stesso Tomasetig, di Stefano Salis, Mario Piazza, Mauro Chiabrando, e schede di Claudio Pavese (il volume è stampato in tiratura limitata e in coedizione con Libraccio).

Si tratta di una occasione imperdibile per appassionati di libri, bibliofili e per tutti gli altri – i primi avranno occasione di scoprire cose nuove; i secondi di trovare libri pregevoli; i terzi di diventare, forse, bibliofili o quantomeno più appassionati – e, inoltre, per arrivare a capire quanto lo stesso Claudio Pavese auspica, cioè a come «le avventure editoriali, specialmente se straordinarie, se sofferte, se costate sacrifici anche estremi, si ascoltano, prima di tutto, con gli occhi.». Proviamo perciò a dare una traccia di lettura al riguardo.

Il libro secondo Einaudi

«Un libro, prima di essere una merce, è e deve restare un libro.» Così Giulio Einaudi. Una dichiarazione che Salis, nel suo intervento, spiega: «Significa che fare i libri presuppone la perfetta conoscenza della loro intrinseca essenza. Conoscere la loro essenza non significa accettarne il contenuto, condividerlo o, persino, contestarlo; significa capire cosa fa di un libro un libro. Significa conoscere nel profondo la qualità che carta, copertina, titolazione, occhielli, caratteri, specchi di stampa, bianchi e neri, griglia compositiva, spessore, margini, inchiostro, colori, porosità, caratteristiche delle colle, tutte insieme e ciascuna nella sua specificità concorrono a formare quell’oggetto, prima di tutto materiale e concreto che chiamiamo ’libro’».

Ora, un elemento centrale quando un libro diventa oggetto d’arte in mostra è, senza dubbio, la copertina. Un libro è un libro a partire da questo. La storia delle copertine Einaudi è senza dubbio la storia dell’affermazione di uno stile che designa tutto l’oggetto-libro e che si concretizza come punto di vista sociale e culturale. È una storia plurale e creata da più fattori. Piazza li suggerisce e sintetizza molto bene nel suo intervento, menzionando la chiarezza di intenti di Giulio Einaudi come base, l’apporto insostituibile di certi grafici – si pensi a Albe Steiner e al grande lavoro per la storica rivista «Il Politecnico», oppure alla consulenza costante di una star come Bruno Munari – e, come perno, il ruolo insostituibile Oreste Molina: «È lui che pensava alla vera forma del libro, non solo alla sua soglia».

Il passato e il futuro

Oltre a poter ammirare la grafica Einaudi al suo meglio, la presenza di alcune pubblicazioni in mostra nel percorso espositivo potrà senza dubbio rivelare in modo netto la relazione tra la casa editrice e la Storia.

In merito, menzioniamo tre momenti che ci sono apparsi fra i più interessanti: il passaggio del marchio editoriale – lo struzzo e il motto del cartiglio nascono addirittura con Paolo Giovio (1559) – dalla rivista «La Cultura» alla prima pubblicazione della collana di Leone Ginzburg nelle edizioni Einaudi (1935), come simbolo di coesione interna e di impegno contro la cultura del regime; la parentesi fascista rimossa, il commissariamento della sede di Torino e l’insediamento a capo di Paolo Zappa, una storia i cui libri saranno debitamente non riconosciuti da Giulio Einaudi al suo ritorno in città dopo la fine della guerra (l’editore riuscirà a rivendere i titoli ad altri); la pubblicazione dei canti della resistenza spagnoli (1962) – collana libri bianchi – che causò allo stesso Einaudi l’interdizione a poter mettere piede nella Spagna di Franco.

Oltre alla Storia, sul piano progettuale una mostra del genere vale, anche, come indicazione relativa al lavoro Einaudi come modello di una educazione alla lettura in senso lato.

Dalla ideazione della copertina alla architettura della pagina: quello che viene fuori è un esempio di scuola formativa – come Claudio Pavese (mi) suggerisce, si pensi solo alle generazioni di lettori che i libri Einaudi hanno educato a guardare, grazie per esempio ad un lavoro grafico capace di presentare immagini di artisti altrimenti non oggetto di un pubblico ampio e trasversale.

Per quanto riguarda gli intenti, invece, non si può che parlare di futuro.

Tomasetig lo dice esplicitamente, in riferimento al collezionista: «Ha un sogno nel cassetto: fare della collezione uno strumento vivo (l’ha chiamato «Casa Einaudi») di stimolo alla lettura per le nuove generazioni, in un’epoca in cui il libro di carta deve dar fondo a tutte le risorse per difendere la sua centralità nella trasmissione del sapere conquistata nel corso del tempo».

Varrebbe davvero la pena provarci.