Sosteneva di essere «il più grande amico della lingua tedesca», ma era stizzito, ironico e frustrato il legame che fin dalla giovinezza istigava Mark Twain nel rovinoso tentativo di imparare la infernale lingua di Goethe. L’inciampo iniziò prestissimo: qualche lezione privata da un calzolaio a Hannibal, con sprezzo dei pericoli sintattici e grammaticali, poi l’avventura di redattore all’«Anzeiger des Westens», il più importante giornale tedesco di St. Louis. Malgrado il numero imbarazzante di refusi, Mark Twain non rinunciò: la buona volontà di una governante tedesca e un lungo viaggio in Germania nel 1878 avrebbero dovuto risolvere la questione. L’inizio fu, di fatto, idilliaco, ma bastarono poche settimane per registrare l’ennesima disfatta: «Al diavolo il tedesco, non riuscirò mai a impararlo» ammette e, poco dopo: «Non credo che esista qualcosa che non puoi imparare a Berlino, ad eccezione del tedesco».

Nonostante tutto, prendeva appunti, protestava, azzardava qualche frase di rara assurdità registrando il successo del suo strampalato english-deutsch tra gli interlocutori di ogni età e condizione. Confortato dalla complicità dei connazionali si dedicò a una trattazione irresistibile: nel suo resoconto di viaggio in Europa, ricco di giochi prospettici e ironica distanza, A Tramp Abroad (1880 – Un vagabondo all’estero, pubblicato in Italia solo a frammenti dalla Biblioteca del Vascello e da Robin), collocò in appendice le lamentazioni di uno studente avvilito con l’aggiunta di eccellenti proposte di riforma – che in parte il tempo ha realizzato – The Awful German Language.

«I miei studi filologici mi hanno dimostrato che una persona dotata è in grado di imparare l’inglese, (tolta l’ortografia e la pronuncia) in 30 ore, il francese in 30 giorni e il tedesco in 30 anni: è dunque evidente che si tratta di una lingua che ha bisogno di essere semplificata, rimessa in sesto. Se dovesse rimanere così com’è, converrà archiviarla rispettosamente fra le lingue morte, perché solo i morti avranno il tempo di impararla»: insieme ad altri cinque testi sparsi redatti tra il 1880 e il 1899 e dedicati a questa battaglia, La terribile lingua tedesca, viene proposto in prima edizione italiana da Dino Baldi in un volumetto godibilissimo e ben curato che inaugura la collana «Storie» dell’editore Quodlibet (pp.134, € 14,50).

Da ossessivo virtuoso della lingua (inglese), Twain catalogava difficoltà, assurdità e a tratti anche il fascino di un universo così astruso. Insisteva impietoso su costruzioni bislacche, declinazioni respingenti, interminabili parole composte (ne conta anche di 95 lettere), verbi separabili irredimibili, generi che assegnano il neutro a una moglie o a una ragazza e il femminile a una rapa. Si intestardiva sulle innumerevole regole fino a soccombere alle eccezioni: «Ci si tuffa nello studio fino al collo, nudi e indifesi. E quando si crede di avere avvistato una regola che offra un appiglio per riprendere fiato…“Lo studente abbia cura di annotare le seguenti eccezioni”».

E pensare che, l’avvertito Martin Lutero, traducendo i Vangeli e la Bibbia aveva cercato di definire una lingua sintatticamente semplice, foneticamente chiara e semanticamente comprensibile, perché tutti fossero in grado di capirla: «la madre in casa, i bambini in strada, il popolo al mercato».

Il ritorno in Germania e in Svizzera nel 1891 e un soggiorno di 19 mesi a Vienna dal 1897 al 1899 non furono sufficienti a migliorare la situazione ma si moltiplicarono le pagine ricche di strafalcioni (troppo assurdi per essere veri, ma assolutamente esilaranti), le osservazioni ironiche, i tentativi tutti fallimentari di parlare e scrivere correttamente.

Eppure, il ragionevole Twain sembrava a tratti conquistato dall’efficacia emotiva delle parole tedesche che trattano di gentilezza, benevolenza e amore. «Ci sono alcune parole tedesche che sono insolitamente espressive» scrive, «hanno un suono commovente e vibrante dalle quali emana una impalpabile magia»: di questa fascinazione, tra serio e faceto, rimane traccia nei suoi rituali familiari contro il malocchio, nell’uso di formule stregonesche tutte «germaniche» in A Connecticut Yankee in King Arthur’s Court e, con tutta la serietà di un addio, nella perfetta iscrizione vergata sulla tomba della moglie Olivia: «Gott sei dir gnadig, o meine Wonne!» (Dio ti sia misericordioso, o mia diletta).