Su questa Rubrica abbiamo ripetutamente sottolineato le ragioni di ordine strutturale che hanno contribuito a creare l’attuale instabilità economica. Dopo l’espansione della globalizzazione si è affermata una sorta di crisi da successo.

L’esponenziale crescita cinese ha prodotto, secondo la classica regola dell’eterogenesi dei fini, una potenza di prim’ordine e non solo la principale fabbrica del mondo dove delocalizzare le produzioni. Lo sviluppo su scala internazionale ha così iniziato a ripiegare, guerre commerciali e valutarie si sono affermate, la geopolitica è ritornata nelle principali cancellerie occidentali (Usa e Gran Bretagna in primis). Se questo è stato il contesto strutturale di partenza, la crisi pandemica prima e la guerra in Ucraina dopo hanno prodotto un’accelerazione.

A esser precisi, la guerra non è affatto estranea alle tendenze preesistenti. Misure della tempesta in corso si possono rintracciare nelle difficoltà delle catene del valore contemporanee e, in particolare, nelle supply chain della logistica. Da circa due mesi la Cina è nuovamente costretta a misurarsi con la pandemia e lo fa con i suoi consueti metodi autoritari fondati su una decisa prevenzione. Risultato: prima il blocco di Hong Kong e dopo quello di Shanghai. Due tra i primi tre porti al mondo per traffico di merci (insieme a Singapore). Il traffico merci a livello globale è concentrato nel settore marittimo e proprio attorno ai porti del sud-est asiatico si concentra la gran parte della mole dei movimenti, specie di container.

Nessun porto del Nord America o dell’Europa è paragonabile per volumi ai tre porti leader mondiali. Il lock down di Shanghai, città di quasi 26 milioni di abitanti e con una grande area industriale retrostante, ha avuto l’effetto di lasciare in rada, in attesa di un accosto, circa 700 navi. In Cina manca personale portuale, mancano gli autisti, di conseguenza mancano mezzi di trasporto interni e persino container vuoti. Non a caso sono in corso produzioni forzate di questi ultimi per fronteggiare la loro penuria. I problemi che erano già emersi nella fase di ripartenza dopo il 2020, di carenza di offerta rispetto alla domanda congelata, riemergono ora in tutta la loro virulenza.

Nelle prossime settimane, infine, se dovesse sbloccarsi il contesto asiatico, i porti e le catene logistiche dei paesi occidentali probabilmente dovranno fronteggiare una marea montante di navi cariche provenienti da quell’area, con tutti i problemi di accoglienza e accessibilità presenti nelle reti logistiche. Tali processi alimenteranno il fenomeno del rincaro dei noli (prezzo di trasporto su nave) che, dopo aver subito in questi due anni aumenti oltre il 500%, si erano appena stabilizzati a inizio 2022.

Una tendenza che indica le difficoltà dei trasporti, emersa nel canale di Suez a marzo del 2021 quando l’incidente della portacontainer Ever Given ha bloccato per diverse settimane il traffico merci da e per l’Europa. La scarsità di offerta, dunque, contribuiva ad alimentare la fiammata inflazionistica in corso ben prima dello scoppio della guerra. La mancanza di materie prime coniugata, con la fragilità dei sistemi logistici globali, fa nuovamente precipitare i meccanismi economici reali in una fase che, nella migliore delle ipotesi, si preannuncia di stagnazione.

Il tanto atteso effetto rimbalzo rischia di esaurirsi nel solo 2021. In questo quadro i paesi industriali più deboli ipotizzano persino un ritorno della recessione, come annunciato dagli studi di Confindustria. La nuova normalità, come la chiamano nei paesi anglosassoni, rischia di riconfermarsi come inedia di crescita. Se poi è coniugata al rincaro dei prezzi diventa stagflazione. Uno spettro che si aggira per il mondo, di fronte al quale non è difficile prevedere quali saranno i soggetti in carne e ossa a pagare il conto.