Per strada, ultima opera-libro di Guido Guidi (Mack, 2018, pp. 464, euro 60) si dischiude con una porta tenuta aperta da un pezzo di legno, uno spiraglio-impedimento alla chiusura, al buio assoluto. Questa apertura consente alla luce di sfondare la parete tra due ambienti, due spazi, due realtà, e suggerisce l’esistenza di ciò che non riusciamo a vedere, inchiodati come siamo sulla soglia, laddove non sappiamo cosa si celi all’interno, dietro la porta, e nemmeno cosa ci sia di fronte, davanti alla porta; proprio di fronte e dietro casa sono oggetto di questo racconto. I negativi selezionati dall’archivio hanno ormai quasi quarant’anni, e un loro specifico carattere, che Guidi, maestro del colore, ha saputo assecondare, indirizzare senza temere l’effetto romantico del vintage.

TRACCIANDO UN ULTERIORE percorso tra bianco e nero, dominanti gialle e verdi, ricordandoci che la neve non è sempre bianca, ma rapidamente si sporca, Guidi si muove nel corso di un tempo personale e italico – per un raggio di trenta, quaranta chilometri – dalle frazioni di campagna alle città di provincia, dai margini ai centri storici, trattati, quest’ultimi, quasi fossero margini. E come ulteriore rappresentazione finzionale di uno spazio, sebbene quanto mai preciso e delimitato, Guidi disegna per noi la mappa del suo mondo, l’identificazione del reticolo romagnolo, e ci consegna il suo filo d’Arianna.

LA PORTA è dunque superficie, esergo, incipit, citazione. La porta è la fotografia come cosa in sé: solo attraverso lo spiraglio di luce può esserci l’innesco, lo strappo, ed è così che siamo invitati a entrare nel primo capitolo di un’opera divisa in tre volumi, un libro composto da 285 fotografie. Eccoci sulla Via Emilia, Cesena, e subito le porte si chiudono e riaprono come l’otturatore di una macchina fotografica; compare una bambina con un occhio bendato, poi finalmente qualcuno ci suggerisce la direzione: dove guardare? L’uomo indica i bordi. Sempre a lato. Noi procediamo verso le chiavi disposte su un pannello, chiavi utili per tornare al punto di partenza: serve una chiave per aprire una porta già aperta? La fotografia ci dà l’impressione di tradurre la potenza in atto.

SE PER LEONARDO la pittura è cosa mentale, l’esecuzione è ancora più nobile della sola concezione mentale, perché mette in atto l’immagine a venire, scriveva Arasse; infatti Guidi inserisce il riflesso della sua Deardoff nel vetro di una porta, accanto al riflesso di due bambini (bambino e cane, come da tradizione pittorica, svelano qualcosa degli artisti, è lì che li ritroviamo); essi ci guardano, anche l’albero ci guarda, attraverso un vetro che è sempre metafora, ma ormai l’artista ce lo ha rivelato, non solo ciò che è inquadrato è in trappola: ancora una volta fotografia è il nome di un problema, di un’interrogazione, piuttosto che di una cosa.
Guidi pensa alla fotografia come a una forma di preghiera: «un modo di dare dignità alle cose, dare loro presenza, (…) Strand, Weston o Atget ci presentano delle persone o delle case. Questi antichi maestri, che ho copiato, mi hanno aiutato a trovare il mio percorso», dice Guidi (In conversazione con Antonello Frongia e Andrea Simi, un’intervista presente nel volume).

INFLUENZATO dalla fotografia americana, Guidi prende il testimone negli anni Sessanta e, sebbene nella sua arte riecheggi quella di Walker Evans, uno dei maggiori punti di riferimenti del Novecento, non esaurisce il suo discorso nel formalismo modernista americano, come molti dei suoi emuli italiani, qualche volta perfino ex-studenti, che ci consegnano un’Italia di maniera, svuotata e alleggerita dal contesto, copia sbiadita dell’America; al contrario Guidi trova una consonanza tra la fotografia americana nel suo complesso – «una certa fotografia agli albori» – con la pittura del medioevo e del primo Rinascimento italiano. Guidi evidentemente attratto dai polittici medievali, prima che in Warhol, Hopper o Evans, è in Paolo Uccello, Beato Angelico e Piero della Francesca che si ritrova.

UN TRATTO CARATTERISTICO di Guidi è infatti la sequenza che, sì, ci riconduce alla ripetizione di un gesto che non può mai essere lo stesso, e finisce per spostare l’attenzione dallo spazio descritto al tempo; ma, più semplicemente, la sequenza resta esemplificazione di un processo mentale, il processo con cui sono state fatte le cose, il processo che ci costringe a percorrere il tempo del fare; e non solo quello, terminale, del mostrare.