Macron, nell’aprile del 2019, ha annunciato la creazione della «Convenzione dei cittadini per il clima», nonché del «Consiglio di difesa ecologica», per prendere le decisioni necessarie in materia di transizione ecologica sulla base di competenze condivise. È un’assemblea composta da 150 cittadini scelti con estrazione casuale ed è chiamata a formulare proposte per ridurre le emissioni di gas a effetto serra di almeno il 40% rispetto al 1990, in uno spirito di giustizia sociale.

LE PROPOSTE EMERSE sono molto radicali, come per esempio nel caso della «legislazione sul crimine di ecocidio», che propone di adottare una legge che penalizzi il crimine di ecocidio nell’ambito dei limiti planetari e che includa il dovere di vigilanza e il crimine di «imprudenza». La convenzione e l’assemblea, così composte, intendono sopperire a due limiti gravi dei sistemi politici liberal-democratici: la scarsa efficacia della democrazia rappresentativa nel dar voce agli interessi e ai bisogni «quotidiani» e il dominio esercitato dal sapere esperto rispetto alla conoscenza «non esperta». Ma davvero abbiamo bisogno del sapere dei soggetti marginali e dei «non-esperti»?
Davide Caselli, nel suo libro Esperti. Come studiarli e perché (Il Mulino, pp. 200, euro 20) fornisce una risposta. Nell’interrogarsi sul loro ruolo non esita a dichiararsi a favore di un approccio in grado di «illuminare aspetti più profondi della realtà sociale e costruire strumenti per la loro critica e la loro trasformazione». Il campo degli esperti e dell’expertise ha tutte le caratteristiche per condurre a termine con successo questa operazione: gettare uno sguardo critico sul potere, denso di implicazioni etiche e volto a promuovere l’emancipazione dei «soggetti marginali» come portatori di conoscenza pubblica. Chi si avvicini al libro di Caselli pensando di trovarvi una perorazione morale a favore dei marginali, però, rimarrà probabilmente deluso. Il lavoro si riconosce anzitutto per la rara chiarezza analitica, l’assenza di concetti evocativi e di un uso disinvolto della teoria sociologica, la presenza di una profonda sensibilità etnografica tradotta in una capacità di ricerca empirica «sul campo» encomiabile e l’adozione uno stile narrativo piano e diretto.

L’OGGETTO (o meglio, il processo) indagato da Caselli è la costruzione del welfare milanese, segnata dal «nuovo» paradigma della coesione e dell’attivazione individuale, abitato dalle parole chiave dell’innovazione sociale. I fuochi analitici sono la relazione ambigua e nascosta tra forme e modi della (de)politicizzazione del campo, il velo della tecnica, la natura performativa degli strumenti di misura e finanziamento, la costruzione socio-politica dei «mercati sociali», il ruolo cognitivo e normativo delle istituzioni, a diversi livelli di scala, fino al ruolo delle pratiche «micro» degli attori che sono investiti da bandi, risorse e benchmark che plasmano priorità, danno voce e spazio ad alcuni soggetti a detrimento di altri, individuano specifici corsi d’azione come migliori rispetto ad altri, rubricano i paradigmi educativo-pedagogici come «vecchi e stantii», burocratizzati e incapaci di «innovazione» e «imprenditorialità».

L’ATTENZIONE DELL’AUTORE è non solo o tanto per la sociologia critica, quanto – sulla scia dei convenzionalisti francesi – per i processi socio-politici che costruiscono o distruggono la capacità critica degli attori e la loro voice. Se nella reinvenzione del welfare milanese la capacità di voice dei soggetti marginali fosse stata meglio coltivata, si sarebbero creati contesti organizzativi e confronti pubblici di tipo «eterarchico», dove diverse convenzioni di qualità e ordini del valore si sarebbero confrontati all’insegna della reciproca differenza e incommensurabilità.
Arene pubbliche di questo tipo avrebbero sostenuto il confronto dissonante tra gruppi eterogenei, anche in funzione di un cambiamento del welfare locale, mediante regole pratiche di pluralismo e anti-perfezionismo dove il paradigma educativo-pedagogico e quello imprenditoriale-contestuale avrebbero potuto tentare di trovare, seppur in modo parziale, un punto di incontro. La presenza di attori forti, dotati di capacità di spesa, influenzati dalle parole d’ordine del mainstream europeo, però, hanno ridotto gli spazi eterarchici a favore di discorsi e pratiche monocromatiche.

LA RESISTENZA e il conflitto sono sempre possibili, ci racconta l’autore, anche se purtroppo il tema rimane un po’ in ombra nel libro. Sui margini di resistenza pratica e sulla possibilità di costruzione della capacità critica, si sarebbe forse potuto osare di più. Domanda, questa, per la prossima ricerca di Caselli: come si costruisce la capacità critica e di voice collettiva in condizioni avverse?