Il metodo scientifico è una pietra miliare della cultura occidentale. Eppure, come mostrano gli studi dello storico della scienza dell’università di Warwick (Regno Unito) James Poskett, è impossibile concepire la scienza odierna senza il contributo di culture diverse da quella occidentale. È il tema che Poskett affronterà sabato 20 aprile al Festival delle Scienze di Roma. Secondo le sue ricerche persino la rivoluzione copernicana in realtà deve molto alla tradizione islamica.

Prof. Poskett, come facciamo a saperlo?
Anche se molti storici lo hanno ignorato, lo ha scritto lo stesso Copernico, che compì pochissime osservazioni: gran parte dei dati che utilizzò provenivano da tabelle spagnole, le tavole di Toledo realizzate da matematici ebrei sulla base di tavole astronomiche islamiche. Lo stesso astronomo cita il lavoro di almeno cinque autori medievali arabi sui moti dei pianeti. Alcuni dei diagrammi che utilizza per calcolare il moto dei pianeti sono tratti dal lavoro del persiano Nasir al-Din al-Tusi.

Anche la biologia deve molto alle conoscenze delle popolazioni precolombiane. Lei ha descritto la sorpresa dei sapienti europei quando si resero conto che «Aristotele non conosceva il pomodoro». Cosa significa?
All’epoca, gli europei pensavano che la vera conoscenza fosse contenuta solo nei testi greci e romani e nella Bibbia. Il riferimento massimo era dunque Aristotele. Ma con l’arrivo in America emerse la prova inconfutabile che Aristotele non sapeva tutto. Aristotele non conosceva un intero continente, i suoi abitanti, e non conosceva nemmeno i pomodori o l’ananas, arrivati in Europa con i viaggi di Colombo. Il contatto con le culture precolombiane fece crollare l’infallibilità dei testi antichi e aprì a un nuova visione in cui l’indagine empirica nel mondo esterno, al di là del testo, diventa una parte fondamentale della conoscenza.

James Poskett

Lo scambio avviene anche nella scienza contemporanea o ormai si può parlare di un’unica cultura scientifica mondiale?
Almeno in superficie, esiste una scienza globale: utilizza la lingua inglese e si basa su istituzioni e riviste come Nature, su grandi progetti internazionali, su un insieme di valori a cui gli scienziati si ispirano come l’apertura, l’autenticità, le prove scientifiche. Lo stesso tipo di cultura scientifica che si osserva in un laboratorio in Italia, in Francia, in Messico o a Pechino. Al di là di questo, credo che permangano differenze importanti che però non hanno a che fare con una differenza di civiltà tra est e ovest o tra nord e sud o con l’identità nazionale. Come storico, mi interessa come il mondo sociale e politico in cui erano immersi gli scienziati, cioè i loro valori, abbia influenzato le loro scelte. E penso che valga anche oggi: per esempio, essere uno scienziato nella Cina di Xi Jinping o in Inghilterra durante la Brexit non è la stessa cosa.

Come fanno i valori a influenzare la scienza: modificano le domande che si fanno gli scienziati, o le risposte che si danno?
È una questione filosofica con cui ci confrontiamo da un secolo. Certo, i valori modellano le domande. Ma plasmano anche i metodi, le motivazioni e anche le risposte. Secondo la tradizione marxista, le condizioni materiali in cui lavorano gli scienziati determina la loro scienza. Credo che la maggior parte degli storici oggi sia molto meno determinista e sia più aperta all’idea che anche all’interno della stessa società vi siano differenze tra scienziato e scienziato.

Oggi si discute molto di aumentare la diversità di genere o di etnia della comunità scientifica. Che tipo di scienza possiamo aspettarci da una comunità scientifica più plurale?
Non si può produrre progresso scientifico attraverso una monocultura. Non solo servono nuove idee: è anche necessario che mondi culturali veramente diversi si incontrino. E un modo per farlo è una comunità scientifica più genuinamente diversificata. Ma non credo che si possa prevedere quale sarà l’esito di questo processo. Quindi non credo che solo perché nella scienza ci sono più donne o scienziati asiatici o di religione indù, si otterrà un particolare tipo di produzione scientifica. Credo che la scienza sia una sorta di scatola nera, che la diversità culturale in passato abbia prodotto cambiamenti e che lo farà anche in futuro.

In tempi ancora più recenti, lei ha sostenuto con forza la causa degli scienziati ucraini. In un mondo globalizzato, le comunità scientifiche nazionali sono ancora un argomento di ricerca per uno storico della scienza?
È vero: molti miei colleghi, in particolare quelli che si occupano di storia russa e dell’Europa orientale, hanno sostenuto con grande forza gli accademici e gli studenti ucraini. Per quanto riguarda me, all’indomani dell’invasione russa ho scritto un articolo con la mia collega Claire Shaw, una storica dell’Unione Sovietica, sul mondo della scienza ucraina e su come gli ucraini abbiano lottato a lungo per una propria identità scientifica separata dalla Russia, anche prima dell’invasione.

Warwick, come quasi tutte le università occidentali, ha interrotto le collaborazioni con le istituzioni scientifiche russe. È una contraddizione per la tradizione cosmopolita delle università?
Non vedo la scienza come un mondo in cui vanno tutti d’accordo: ci sono invece molti conflitti e violenze. Perciò non credo che si possa essere neutrali su tutto. Penso che sia ragionevole che gli Stati, le università e gli accademici prendano una posizione forte sui tipi di crimini e conflitti che si stanno verificando nel mondo in questo momento. La mia posizione è che gli scienziati, gli accademici e le università possano e debbano reagire con forza all’oppressione, in questo caso, del popolo ucraino.

E in Medio Oriente? In questi giorni gli studenti italiani chiedono alle università di disinvestire dalle ricerche a scopo militare svolte in collaborazione sia con Israele che con altri Paesi. È una richiesta legittima?
Quando ero uno studente dell’università e del college ricordo molte campagne per il disinvestimento dal commercio di armi in generale. Il commercio di armi e le relazioni tra scienza e militari sono aspetti che interessano il mio lavoro. Come ho mostrato con le mie ricerche, Isaac Newton investiva nel commercio degli schiavi e non avrebbe potuto ottenere i suoi risultati scientifici senza un mondo in cui esiste la schiavitù: molte osservazioni sulla Terra e sugli astri su cui basò le sue ricerche provenivano da viaggi e esplorazioni legate al commercio degli schiavi. Allo stesso modo, oggi potremmo chiederci se certi studi potrebbero esistere senza tecnologie militari e conflitti in cui muoiono migliaia di uomini, donne e bambini vengono uccisi. La risposta è no: alcune scienze si basano su quel mondo di violenza. Dunque penso che sia perfettamente ragionevole mobilitarsi su questo, e che sia davvero pertinente al lavoro scientifico. Gli scienziati amano parlare di aspetti positivi del loro lavoro e delle loro relazioni. Ma non amano parlare del lato oscuro dell’umanità, come conflitti e povertà, che coinvolgono anche la scienza. Scienziati e università invece dovrebbero prendere più seriamente la questione degli investimenti nel commercio di armi e in forme di scienza che rafforzano disuguaglianze e sfruttamento.

Il festival: errori e meraviglie fino a domenica

Dopo due giorni di prologo dedicati alle scuole, apre oggi al pubblico il Festival delle Scienze di Roma, che fino a domenica 21 aprile animerà le sale dell’Auditorium – Parco della Musica. L’edizione 2024 è intitolata «Errori e meraviglie», due componenti indispensabili nel cammino visionario e accidentato che intraprende ogni scienziata ed ogni scienziato. Numerosi gli ospiti italiani e internazionali che dalla mattina alla tarda serata saranno protagonisti del festival coordinato da Michele Bellone. Tra i tanti incontri, da segnalare quello con lo storico inglese James Poskett – il 20 Aprile alle 11:00 Teatro Studio Borgna, con Wendy Schultz, futurologa, modera Marco Motta, Radio3 Scienza. Marc Abrahams sarà il «maestro di cerimonie» che ogni sera alle 19 presenterà i temi e i protagonisti dell’IgNobel, il premio per le ricerche più strambe e (apparentemente) inutili dell’anno. Dall’università di Stanford, Jo Boaler discuterà le nuove strategie con cui avvicinare alunne e alunni alla matematica e alle sue applicazioni, come l’intelligenza artificiale.