Febbraio, 2004. Bagdad è caduta da pochi mesi nelle mani degli americani e dei loro alleati. La guerra al terrore globale, lanciata da George W. Bush dopo l’attentato alle Torri gemelle, è al suo culmine. Così come è al suo culmine quel progetto, oggi completamente archiviato, ma su cui all’epoca si spesero fiumi d’inchiostro, di «esportare la democrazia».

Oggi su quell’epoca e sulle sue molte contraddizioni, sui grandi abbagli e sulle menzogne raccontate all’opinione pubblica per giustificarsi e assolversi da quell’enorme massacro di vite umane (una su tutte quella delle armi di distruzione di massa) sembra essere calato un ostinato sipario. Certo, c’è stato qualche buon film, forse anche qualche capolavoro, merito soprattutto di Kathryn Bigelow, ma si tratta di opere che raccontano episodi molto circoscritti e specifici. Insomma si sente ancora la mancanza di una narrazione in grado di restituire il sapore dell’epoca, di sentirne i rimorsi e di interrogarne gli errori, non pochi.

Su questa lunghezza d’onda si è mosso Tom King con un’opera in dodici volumi giunta da poco in Italia in versione integrale: Sheriff of Babylon (Vertigo/Lion, pp. 292,euro 29,75).

La prima cosa da rimarcare attiene evidentemente alla biografia di King, classe 1978, che dopo il 2001 ha effettivamente svolto incarichi per la CIA, nella sezione anti-terrorismo, compiendo anche numerose missioni all’estero. Ed è proprio l’atmosfera, anzi forse sarebbe meglio dire il climax, la prima cosa importante da rilevare in quest’opera in cui si restituisce il clima caotico, di perenne pericolo della Bagdad immediatamente dopo la caduta di Saddam.
Tutto inizia dunque poche settimane dopo l’arrivo delle truppe americane nella capitale irachena e l’apparente fine delle ostilità. Chris Henry è venuto in Iraq pensando di poter svolgere tranquillamente la propria professione di addestratore della polizia del nuovo, ancora tutto da costruire, stato iracheno.

Ma un giorno si presenta al suo cospetto una ragazza, dice di essere imbottita di esplosivo, l’uomo cerca di farla ragionare, ma nel frattempo sono entrate nel tendone dell’accampamento, le forze speciali che freddano la ragazzina con un colpo alla testa.

Ecco, questo è l’Iraq di quei mesi, un posto in cui anche le buone ed ingenue intenzioni del cowboy americano cadono nel ridicolo.

Un posto nel quale calzano a pennello le parole dell’Apocalisse biblica: «E l’angelo gridò con voce potente: «È caduta! La grande Babilonia è caduta! È diventata dimora di demoni, rifugio di tutti gli spiriti immondi, rifugio di ogni uccello impuro e ripugnante». (18:2)

Ma non c’è solo Chris, lo sceriffo impossibile di un luogo completamente esploso, in cui nessuna regola può essere applicata se non quella, imperscrutabile agli uomini, del caso. C’è Saffiya che gli americani chiamano per semplicità o meglio a causa di quella faciloneria che li fa ritenere in diritto di abbreviare, storpiare, ridicolizzare qualunque cosa non sia scritto o detto nella loro lingua, Sofia. Così lei stessa racconta nelle prime pagine chi è «Mio nonno era un grande iracheno. Ha fondato il partito Baath con Saddam, trasformando l’Iraq in qualcosa di cui andare fieri. Saddam lo ha fatto uccidere, naturalmente, così come mio padre e il resto della mia famiglia. Lasciandomi da sola in una scuola americana. A guardarlo in televisione. Per vent’anni ho lavorato per convincere l’America a invadere questo paese. Per consentirmi di tornare dalla mia gente. Mi sono offerta a questo scopo e loro hanno accettato. E ora sono in Iraq.»

C’è poi Nassir, terzo ed ultimo componente di questa triade di protagonisti. Ex funzionario della polizia irachena che ha perso durante la guerra tutte le figlie a causa di una delle cosiddette bombe intelligenti americane. A mettere in collegamento i tre è un cadavere, quello di Alì Al Fahar, uno degli allievi che Chris stava addestrando. Viene ritrovato morto. Chris si rivolge a Saffiya, appena entrata nel consiglio provvisorio iracheno da cui uscirà poi il primo governo politico del paese, per chiedergli aiuto e capire come e perché il suo allievo è stato ucciso. Saffiya si rivolge quindi a Nassir, a cui ha appena consegnato tre pacchi, ovvero i tre soldati responsabili della morte delle sue figlie.

Subito dopo averli giustiziati Nassir riceve la telefonata a cui non può dire di no. Deve ricambiare con un favore la vendetta che Saffiya lo ha aiutato a prendersi nei confronti di chi ha fatto del male alla sua famiglia. Da qui sostanzialmente prende le mosse Sheriff of Babylon. Tre personaggi intrecciati uno con l’altro da varie, umanissime anche se non lodevoli ragioni, e un cadavere, misterioso quanto sfuggente.

Vero protagonista è proprio l’ambiente, il contesto in cui tutti e tre si muovono, l’Iraq popolato di personaggi disgustosi, biasimevoli, contraddittori, pochissimi sono quelli che potrebbero salvarsi ad un giudizio morale appena appena serio. Un posto nel quale davvero niente è come sembra, pieno come è di doppi e triplogiochisti, mercenari, contractors. Questa intelaiatura ha molto delle opere migliori di scrittori come Graham Greene e di quel sordo ma incessante rosolarsi della coscienza nella brace di grandi e piccoli interrogativi.

Nessuno dei personaggi che incontriamo resta come si trovava in partenza…La complessa tessitura della sceneggiatura necessita di molta attenzione, di riletture, di passi indietro. Tutto quanto serve a tenere insieme quel grande caos che sono le guerre moderne, a prima vista così evolute ed intelligenti, in realtà capaci di ripiombare chi ne è coinvolto nel pieno viluppo dei suoi istinti più primordiali.