Docenti e studenti possono incontrarsi al bar, nei centri commerciali e perfino nelle discoteche, ma non nelle università; perché? A quanto pare nessuno lo sa, dunque è lecito sospettare.

Il sospetto, più che fondato, è che le tradizionali lezioni non servano più, sostituite da ben più efficaci lezioni a distanza, come già accade nelle università (private) telematiche.

Chi sarebbe il mandante di tale innovazione? La risposta è che non c’è un disegno preciso dietro il quale si annida un perfido riformatore. A questo nefasto obiettivo convergono più e diversi interessi: quelli di Confindustria, delle lobbies accademiche private, delle baronie universitarie, dei manager che possono perfino avvalersi di presidi e direttori di dipartimento compiacenti, affascinati da tale effimero cambiamento a costo zero.

Didattica a distanza profusa, in questa stagione del virus, con generosità e grandi sforzi da docenti impegnati a non far mancare agli studenti il loro appoggio e la loro vicinanza, mentre altri, meno generosi e più scaltri, confezionano corsi on line da utilizzare inalterati per i prossimi anni.

Pensare però che essa possa diventare lo strumento «innovativo» anche in situazioni di normalità svela solo il criminoso progetto di discriminare tra studenti privilegiati cui riservare le tradizionali lezioni in aula e studenti fuori sede cui verrebbero riservati corsi on line di bassa qualità didattica. Con l’aggravante di ritornare a quel vecchio modello di apprendimento che si limitava a trasferire competenze da docente a discente (secondo la metafora dell’imbuto) senza possibilità di confronto diretto come avviene nelle aule accademiche.

«La didattica telematica rischia di non essere altro che un vestito tecnologico per questo modello vecchio», afferma una delle tante lettere aperte inviata al Ministro Manfredi firmata da molti docenti e ricercatori di vari atenei italiani (13 giugno, pubblicata su Volere la luna).

Se si esaminassero le politiche per l’università a partire dalla famigerata «riforma» di Luigi Berlinguer (il 3+ 2) ad oggi, il quadro apparirebbe più chiaro: in sintesi l’università è stata svuotata di quella funzione di produrre pensiero critico disinteressato e asservita, «riforma dopo riforma», alle sedicenti leggi del mercato, all’ideologia neoliberista. Basta leggere i vari comunicati di esponenti autorevoli di Confindustria in proposito. E i professori si sono sempre rivelati (salvo poche e sparuti dissidenti) complici di tale disegno pur di mantenere i loro effimeri privilegi.

Le università non riaprono perché nessuno ha più bisogno dei loro saperi; oggi servono competenze specialistiche, abilità manageriali, capacità pratiche di adattamento al mondo del lavoro.

L’università ha perduto il suo status originario di luogo di conoscenza, di scambio di culture, di libero confronto di idee e visioni del mondo. Mancava l’ultimo tassello ed eccolo servito dall’occasione del Coronavirus: fine di ogni incontro e confronto fisico tra docenti e studenti.

In un documento inviato al Presidente del Consiglio, al inistro Manfredi e alla ministra Azzolina, del 27 marzo 2020, oltre 1400 professori sotto il titolo Disintossichiamoci. Sapere per il futuro, (www.roars.it) si affermava: «Se non avremo la forza di aprire subito una fase radicalmente nuova, mettendo in discussione i dogmi, le strategie e le narrazioni egemoni del nostro tempo, i danni di una politica che assoggetta la conoscenza all’economia rischiano di diventare irreversibili Lo attesta la convergenza tra vertici accademici e industriali, vari protocolli d’intesa Crui- Confindustria, Cnr- Confindustria ecc. e più in generale un assetto ideologico che ha distrutto le logiche interne ai vari saperi, l’uso pubblico della ragione che è proprio della scienza e l’idea stessa di comunità».

E Antonio Scurati, prima ancora della completa comparsa del virus (Corriere della Sera del 16.02.2020) commentava: «Una distruzione terribile e paradossale: nella cosiddetta “società della conoscenza” — quella in cui il sapere assume un ruolo fondamentale per la vita sociale — condannata a morte lenta è proprio l’istituzione dedicata alle cose della conoscenza».

Nel frattempo rimangono inalterati i criteri di misurazione del cosiddetto merito come la Vqr, sotto processo da vari istituti internazionali di ricerca, che costringono docenti e personale amministrativo a sfibranti classifiche «di merito» con cui valutare i docenti e che sviliscono gli sforzi di ogni autentico desiderio di conoscenza.

Riaprire le porte di questa prestigiosa istituzione che è (ancora) l’università, è dunque urgente e necessario perché essa rappresenta l’unico luogo di confronto e di conoscenze, senza il quale nessun futuro è possibile e ogni democrazia è negata in partenza.