Non è possibile scrivere di pensiero sociale senza essere coscienti del proprio punto di vista sul mondo e senza dichiaralo, specie quando ci si confronta non solo con l’opera di uno dei più famosi e stimolanti sociologi del Novecento, Pierre Bourdieu, ma quando il tema della riflessione investe direttamente uno dei mondi che si abitano: l’Università, analizzata in Homo Academicus (Dedalo, pp. 376, euro 21), libro ora ritradotto in italiano e pubblicato nel 1984 dal sociologo francese, quando già aveva assunto la cattedra al Collège de France da alcuni anni.

Così, si può partire dicendo esplicitamente che, di fronte all’impostazione di Pierre Bourdieu, l’atteggiamento è ambivalente: di questo studioso, outsider venuto da lontano sia geograficamente (nacque nel 1930 nel dipartimento Pyrénées-Atlantiques) sia socialmente (suo padre era un postino) si può condividere la costante attenzione per l’influenza delle disuguaglianze sociali nella spiegazione delle azioni sociali. Soprattutto, la sua capacità di far vedere come qualunque modernizzazione (prima di tutto in Europa) non elimini i ceti tipici dell’Ancien Régime: nobiltà, chiusura, distinzione si rinnovano nelle élite culturali, politiche ed economiche di oggi. La sociologia contemporanea ha rinunciato a tematizzare tutto questo, producendo l’immagine di un individuo sociale decontestualizzato e senza legami stabili. La crisi che stiamo attraversando segnala invece che questa prospettiva è sbagliata: le disuguaglianze sono più forti di prima, il nuovo medio-evo delle oligarchie globali e locali, dei ceti e delle «caste» avanza e la sociologia ha bisogno di re-includere tutto ciò nel suo punto di vista. Altrimenti, diventa culturalmente e politicamente irrilevante.

Non è tuttavia del tutto condivisibile l’eccesso di strutturalismo del pensiero di Bourdieu: l’origine sociale, il posto che si occupa in un determinato ambito (che egli definisce «campo sociale», in analogia con la fisica e le sue forze) sembrano chiudere ogni possibile libertà d’azione e tutto si riproduce quasi incessantemente. Manca il «Soggetto» nel punto di vista di Bourdieu e, dunque, la possibilità reale di spiegare il cambiamento e l’emancipazione che pure attraversano la storia: ogni situazione di dominio è anche una possibilità concreta di rovesciarla. Ma questo lo studioso francese non è stato in grado di riconoscerlo, prigioniero sia della sua sociologia radicalmente critica, sia della sua ossessione, in uno stretto intreccio tra biografia personale e formazione intellettuale, per l’inerzia sociale (la «riproduzione», tema di uno dei suoi più famosi scritti): al pari di tutti i sociologi della seconda metà del Novecento, anche Bourdieu ha fallito la sfida di produrre una teoria sociale in grado di tenere insieme in modo soddisfacente la libertà degli attori con i condizionamenti delle strutture e delle istituzioni.

Homo Academicus va letto all’interno di questa ambivalenza dal momento che si basa tutto sull’applicazione del modello del «campo sociale», cioè di una lettura dell’Università come un ambito conflittuale per il controllo delle sue risorse tipiche (prestigio, influenza politico-culturale), nel quale si combatte da posizioni diverse, alternando lunghe fasi di «guerra di trincea» a brevi, ma significativi momenti, di «guerra di movimento».

Cominciamo dal primo tipo di combattimento, quello che domina la quotidianità della vita accademica. Cosa svelano a questo proposito le ricerche di Bourdieu? Ciò che ogni accademico sa ma che non ammette, se non nel retroscena del suo lavoro: la scienza e il merito scientifici sono un feticcio che tutti omaggiano per legittimarsi e guadagnare la propria autonomia ma che non funziona come unico criterio di reclutamento, assegnazione e esercizio del potere accademico.

Prendendo spunto dall’analisi di Kant, Bourdieu mostra che sia nei rapporti tra le varie Facoltà che, al loro interno, tra le diverse figure accademiche, si riproduce sempre la distinzione e il conflitto tra chi rivendica potere sulla base del capitale scientifico (risultati acquisiti con la ricerca) e chi lo fa sulla base del capitale sociale – influenza derivante dall’appartenenza alla borghesia o a una dinastia di intellettuali oppure a una consorteria politico-culturale.

Non si tratta di un conflitto tra il male e il bene, tra «merito» e «baronia» ma di due principi sempre compresenti: gli outsider e le discipline più vicine alla ricerca pura accumuleranno e useranno il primo tipo di capitale, gli insider e i saperi più vicini al campo del potere (come Medicina e Giurisprudenza) il secondo. Oggi questa lettura risulta valida solo nel caso di realtà universitarie arretrate rispetto allo sviluppo capitalistico mondiale (come nel caso dell’Italia): nei contesti dove ha dominato l’economia della conoscenza e gli accademici fanno affari d’oro con il mondo del business (come negli Usa) prevalgono nuove figure e nuovi sistemi di rapporti legati ai knowledge workers e alle dinamiche di mercato.

La fase breve, ma intensa, della «guerra di movimento» Pierre Bourdieu la rintraccia nel Sessantotto: nella sua lettura, questo evento è il frutto della trasformazione dell’Università in Università di massa, con il conseguente declassamento dei titoli di studio e l’aumento del numero di docenti universitari cui però, non avrebbe fatto seguito un eguale incremento delle opportunità di carriera. Nel caso della Francia, la crisi generale del Maggio del Sessantotto nascerebbe dalla contingente formazione di un’«omologia di posizione» (nello sfruttamento e nella frustrazione) tra questi parvenu dell’Accademia e le classi lavoratrici. Si tratta di una spiegazione parziale e speculare a quella funzionalistica (Parsons, ad esempio, in un volume del 1971 avanzò un’interpretazione molto simile): prigioniero delle categorie strutturaliste, Pierre Bourdieu non seppe vedere lo stretto collegamento tra la nascita della società post-industriale, con la nuova posizione che al suo interno occupano i saperi e i lavoratori intellettuali (compresi quelli in «formazione», cioè gli studenti) e i conflitti sociali inediti che esordirono con il Sessantotto.

Nel complesso, Homo academicus di Bourdieu rappresenta senz’altro un punto di riferimento obbligato per chiunque voglia studiare l’Università, a patto però che si prenda coscienza sia dei limiti del suo strutturalismo di fondo sia dell’importanza crescente della così detta «Terza missione» dell’Università: i suoi rapporti con il mondo economico e con lo sviluppo tecnologico, temi che Bourdieu non poté né seppe vedere in tutta la loro importanza.