«Distesi / davanti a gera, a krossen, allenavamo / le radici, rivoluzione da sotto, non / bismarck, lenin, insetti /entravano, più piccoli / del loro rumore» scrive Lutz Seiler in vierzig kilometer nacht (quaranta chilometri di notte ndr) la sua seconda raccolta di poesie, del 2003. Seiler, uno dei i più interessanti poeti tedeschi della sua generazione, originario di Gera (Turingia), nella ex DDR, ha pubblicato, a 51 anni, un romanzo di quasi seicento pagine che attinge al contesto della riunificazione, affrontato però da un’angolatura sbieca, che se per un verso sembra allontanare il lettore, per l’altro lo spinge, attraverso la densità lirica dei piani narrativi, a entrare molto in profondità nel clima di quella smobilitazione. Kruso, che ha vinto il Deutscher Buchpreis nel 2014 (e in questi giorni esce in italiano presso l’editore Del Vecchio nella temeraria traduzione di Paola Del Zoppo, euro 18,00), è un romanzo magico e potente sul fascino dell’utopia e sul suo ineluttabile fallimento, ma è anche una storia di formazione, un romanzo di avventura, una fiaba. I diversi piani del racconto – autobiografia, invenzione, fonti storiche, richiami intertestuali e citazioni più o meno esplicite – si compenetrano e si confondono, formando un tessuto narrativo a tratti densissimo e a tratti quasi trasparente.

«Dietro a ogni poesia» ha scritto Lutz Seiler nel 2003 «c’è la storia che abbiamo vissuto, la poesia coglie il suo tono di fondo, non la racconta». Con questo romanzo d’esordio Seiler fa la stessa cosa: pur tenendo il filo di una narrazione avvincente, ci immerge di continuo nelle frequenze di un’epoca, ma non la racconta.

Siamo infatti su un’isola, nel 1989. Hiddensee, nel Mar Baltico, leggendaria «isola dei beati, dei sognatori e dei visionari, dei falliti e degli scacciati», prediletta da scrittori e artisti, chiamata la Capri del Nord, che diventa, alla fine degli anni ottanta, un approdo fuori dal tempo per tutti coloro che se ne vogliono andare rimanendo all’interno dei confini. È qui che il protagonista Edgar Blender, giovane ricercatore universitario appassionato di Trakl, approda nel tentativo di sottrarsi al dolore per la perdita della fidanzata, morta in un incidente. Al ristorante l’Eremita, una sorta di vascello alla deriva con tanto di ciurma e ruoli prestabiliti, Ed trova un’accoglienza aspra e silenziosa e un lavoro come lavapiatti che comporta una tale fatica e concentrazione da cancellare ogni altro pensiero. Nelle pause c’è il paesaggio in cui la memoria si annulla: «Non doveva pensare a nulla, parlare di nulla, si godeva il sole e la presenza sfocata del mare».

Ma soprattutto, all’Eremita, Ed trova Kruso ovvero Alexander Krusowitsch, un russo-tedesco che in realtà sembra un indiano, responsabile del lavaggio ma anche maestro e guida per tutti i naufraghi e i fuggiaschi giunti sull’isola. Kruso è cresciuto a Hiddensee dopo che suo padre, alla morte della madre, ha affidato lui e la sorella in adozione a dei parenti. Ma la sorella di Kruso è sparita, forse fuggita, forse morta in un tentativo di fuga. E sono proprio la poesia (che Ed vorrebbe «espellere dal suo cervello», e di cui Kruso riafferma la centralità) e le due donne (la sorella e la fidanzata), speculari nella perdita, a cementare da subito un affratellamento, poi addirittura suggellato col sangue, tra i due protagonisti, novelli Crusoe e Venerdì. L’amicizia tra i due uomini in un mondo molto maschile (che, se non fosse per il consumo frenetico di alcool, farebbe pensare alle comunità anarchiche, teosofiche e salutiste d’inizio Novecento), con gli insegnamenti che Ed riceve da Kruso – compreso quello del sesso come scuola di distacco (Kruso fa trovare a Ed ogni sera nel letto una ragazza diversa) –, è l’asse portante del romanzo. Seiler tuttavia non ci permette mai di rimanere su un piano lineare di lettura, e anche se Defoe è molto presente, sono innumerevoli i rimandi interni ed esterni al testo che ci sorprendono, ci disorientano e impediscono una lettura di superficie costringendoci ad affrontare la complessità delle situazioni e dei personaggi.

Ogni dettaglio, ogni piccola storia, dentro la vicenda sconnessa dei due protagonisti, interroga il passato in un modo diverso. Uno dei camei più belli del romanzo è quello che riguarda la madre di Kruso, acrobata dell’Armata Rossa, ma anche la figura di Rimbaud, lavapiatti con una piccola biblioteca che alla fine viene divorata dalle api, o quella del professor Rommstedt, patrigno di Kruso, dietro il quale si nasconde Robert Rompe, un fisico che ha realmente vissuto sull’isola; o ancora quella dei punk, «i migliori lavapiatti dell’isola».

C’è poi una terza figura centrale, ed è Viola, la radio: sempre accesa e mai ascoltata veramente se non per le previsioni del tempo, le «chiamate di viaggio» o l’inno nazionale alla fine della giornata. Viola è la Storia, rumore di fondo nell’utopia di libertà che Kruso alimenta con discorsi e rituali: «L’isola è il primo passo, capisci, Ed? L’isola è il luogo. Qui, i più già dopo poche ore riescono a toccare la radice. Che è cresciuta dentro di noi da un passato antico, non dalla nascita, o addirittura in questi giorni, come qualcuno potrebbe pensare, no: da tempo immemorabile. Se riusciamo a sfiorare la radice, allora lo sentiamo che la libertà vive lì, in profondità, come il nostro Io più intimo. È il pensiero del nostro Io nella Storia. Non dobbiamo far altro che risvegliare quel pensiero».

Nonostante le navi grigie che pattugliano confine – perché la Danimarca si trova a soli cinquanta chilometri di distanza e chi si spinge troppo in là nelle acque territoriali viene considerato un fuggiasco –, l’isola sembrerebbe dunque un luogo in cui è possibile vivere secondo un paradigma diverso. Ma Viola incalza e le notizie che diffonde vengono riferite e cominciano a circolare e a causare defezioni. Uno dopo l’altro i componenti della ciurma se ne vanno, eppure Kruso non si rassegna, non può credere di aver perso il suo mondo: «E piano Kruso pontificava sulle possibilità di asilo che la terrazza dell’Eremita poteva ancora offrire. Parlava di chi ritorna e diceva che non sarebbero stati pochi, non appena avessero riconosciuto gli inganni del mondo delle merci». Alla fine, di tutta la comunità dell’Eremita, sull’isola non ci sono che Kruso e Ed, uniti eppure separati dall’inconfessato imbarazzo di essere rimasti «dalla parte sbagliata dell’addio». Poi l’universo sprofonda e quell’universo si chiama DDR.

Nel lungo e dettagliato epilogo prende la parola l’autore in prima persona e racconta la sua resa dei conti con i personaggi e soprattutto l’incontro con i morti, quelli annegati nel tentativo di raggiungere le coste danesi; l’orrore che emerge qui, dietro lo «scudo della scrittura», fa pensare alla frase di Heiner Mülller citata all’inizio dal lavapiatti Rimbaud: «I testi di Artaud, letti sulle macerie d’Europa, saranno dei classici».