Tornare ancora su Auschwitz? Non si è forse esagerato? Ovvero, la sua memoria non rischia di diventare una specie di surrogato della storia, qualcosa che, per il fatto stesso di essere costantemente pronunciata, piuttosto che farci capire il passato semmai ce lo rende ancora più nebuloso? Posto che il racconto di ciò che è stato, in un dato tempo come in più luoghi, non può essere esclusivamente ricondotto solo alle peggiori manifestazioni dello spirito umano, richiamando semmai anche e soprattutto la lunga stagione della conquista dei diritti.

Tutto il Novecento, infatti, è attraversato da una complessa e irrisolta dinamica tra rivendicazioni e subordinazioni, tra diritti ed espropriazioni. La quale, oggi, si traduce nella dialettica tra vittima ed emancipato. Per il tramite della propensione, adesso più che mai pronunciata, di identificarsi con la figura della prima, piuttosto che con il secondo. Un tempo, il racconto della storia era quello che invitava alla proiezione verso il futuro; oggi – invece – sembra ricondursi alla melanconica sensazione di essere consegnati al ruolo, meramente passivo, di spettatori di ciò che accade. Al netto di tante e legittime considerazioni, rimane un segno non di diffusa umanità ma, piuttosto, di impotenza. Quella che deriva dalla consapevolezza, che ognuno di noi coltiva in sé, di non potersi più autodeterminare.

IL RACCONTO di Auschwitz è essenzialmente questo, non altro. Ovvero, quello di una sconfitta totale. Basata sulla deprivazione umana che si fa depravazione immorale e depredazione quotidiana. Auschwitz non è mai stato un orizzonte di significato, se non nell’universo criminale nazista. Ma era anche e soprattutto un esperimento sociale totale: riportare l’umanità alla sua ferina istintualità, al suo elementare stato biologico. A modo suo, se vogliamo vedere le cose dal punto di vista dei carnefici, è riuscito in parte dei suoi propositi, dimostrando la concreta praticabilità di alcuni assunti di base: gli individui, spogliati della civilizzazione, propendono ad essere ricondotti a un’intrinseca bestialità; non esiste «cultura» ma solo «natura», quella ferale dettata dalla sopraffazione per la sopravvivenza; un nuovo mondo sarebbe stato possibile, basandolo esclusivamente sul rapporto tra schiavo e padrone. Era quindi una summa dell’antropologia nazifascista.

Solo una quarantina di anni fa, il suo ricordo sarebbe quindi stato, anche e soprattutto, un paradosso, trattandosi semmai di un brutale aspetto di quell’Europa che ci si voleva lasciare alle spalle una volta per sempre. Oggi, invece, la sua memoria, quando viene cristallizzata, concorre a disegnare il perimetro delle caduta della politica, se con essa si intende la fine di molte attese rispetto al futuro. Siamo infatti inchiodati ferocemente al presente. Per i giovani è come una sorta di tempo eterno, seriale, standardizzato. Qualcosa di destinato a ripetersi all’infinito, dove l’unico soggetto degno di considerazione è colui che soffre. Ovvero, che ha sofferto.

LA VITTIMA DELLA VIOLENZA nazifascista si confonde allora con quelle delle mafie. In una sorta di meccanismo di traslazione e di immedesimazione emotiva per cui, in fondo, tutto si equivale. Per i meno giovani, con la consunzione delle loro pregresse speranze, in ragione del declino dei desideri, per la perdita delle residue passioni, subentra il rifugio in un’isola che non c’è, quella della nostalgia del tempo storico, dove si denuncia tutto il passato poiché, in animo proprio, si pensa di non avere alcunché da fare e giocare in un futuro a venire. Per i più giovani, invece, è il suggello di ciò che resta non di una politica senza spirito e corpo – della quale, peraltro, poco o nulla hanno vissuto – bensì di un’istanza morale assoluta che, in sé, comprende tutto, a partire proprio dall’immobilismo di un tempo presente ancora una volta senza scorrimento storico, privo di trama, destinato a tradursi in una sorta di eternità deprivata di qualsiasi orizzonte a venire. Beninteso, non si tratta di riflessioni, e con esse di quesiti, fuori luogo. Tali poiché fini a se stessi, ossia speculazioni compiaciute.

IL RIMANDO ad Auschwitz, se è autentico, verace, sincero, condiviso fa piazza pulita di tutto ciò. A patto che ci si intenda su alcuni indirizzi di fondo. Non solo per lo studioso ma anche nel caso del cittadino attento ai trend socio-culturali, la percezione che il parlare, quasi ossessivamente, del genocidio europeo (quello dei nazisti contro gli ebrei) in questi trenta e più anni abbia assolto a funzioni di surrogazione di una politica divenuta altrimenti evanescente, è piuttosto diffusa.

Si ripete il resoconto di una catastrofe – quella di un Continente che si piegò, il più delle volte consenziente, a una deliberata politica di sistematica eliminazione di una parte della propria popolazione – per non ragionare su tutto il resto. Ossia, le resistenze, le contrapposizioni, le alternative e quant’altro. Non esiste nessuna acquisizione storica, intesa come consapevolezza comune, se essa non richiama, insieme alle deviazioni della moralità civile, anche gli innumerevoli tentativi di porvi una decisa correzione. Ovvero, gli sforzi di stabilire prima un limite, e poi un’alternativa, al declino collettivo della ragione. In Italia, la data del 27 gennaio, quella del Giorno della Memoria, ha quindi senso se si raccorda a quella del 25 aprile, il lungo momento della Liberazione.

QUALSIASI DISCORSO sulla storia contemporanea, infatti, deve confrontarsi con il bisogno per le nuove generazioni di definire, con la propria coscienza, un tracciato di senso. Si è giovani, infatti, non in virtù di una ragione meramente anagrafica bensì per il bisogno di darsi delle ragioni, ricostruendo il senso del passato secondo le proprie coordinate e con gli strumenti a disposizione. A soccorso di tale stato di cose, giunge il nuovo e corposo libro di Frediano Sessi. Auschwitz. Storia e memorie (Marsilio, pp. 603, euro 30). I quesiti che ci siamo posti sono incorporati nel testo: leggere Auschwitz oppure, semmai, rileggerlo? Non rischiamo, nel tentativo di trovare significati che, in tutta probabilità, potrebbero non esistere, di scavare ossessivamente il fondo del barile, per poi scoprire in noi una qualche forma di maniacalità? Sono domande legittime, al netto del dolore per le vittime che è, in sé, non un oggetto di storia bensì di affetti spezzati e di ricordi faticosamente ricostruiti. Ma la risposta a tali quesiti non può mai essere univoca.

L’AUTORE CERCA in qualche modo di affrontare anche questo ordine di considerazioni. Peraltro, Sessi lavora sulla Shoah da decenni, essendo uno studioso molto conosciuto ed apprezzato. Soprattutto per le sue qualità didattiche e per le competenze professionali che ha maturato nel tempo. Di Auschwitz e del sistema concentrazionario si è interessato ripetutamente, licenziando saggi ad ampia diffusione tra il pubblico. Il volume che adesso il lettore si trova tra le mani è una summa del lavoro svolto nel corso di tanti anni. E si presenta come un testo autosufficiente, ovvero in grado di fornire a chiunque, anche a coloro che ne sono maggiormente a digiuno, le coordinate non solo storiche e fattuali ma anche socioculturali entro le quali fu ideato ed ebbe corso lo sterminio. La lettura è suddivisa in tre parti («Verso Auschwitz»; «Auschwitz e la sua storia»; «Auschwitz e la sua memoria»), che costituiscono tre grandi blocchi tematici, a loro volta articolati in capitolo e paragrafi molto densi, con una vasta bibliografia di supporto.

Frediano Sessi ci offre, in tale modo, un complesso itinerario nel «continente concentrazionario», giungendo fino a oggi. Il volume è prezioso non per abbandonarsi a pensieri dolenti bensì per fare una ricognizione sullo stato della nostra consapevolezza rispetto a diversi ordini di interrogativi che demandano, ancora una volta, non solo a ciò che possiamo sapere ma – soprattutto – a quanto vogliamo per davvero ancora comprendere rispetto ad un passato che, per più aspetti, abita prepotentemente il nostro presente. La completezza del testo, che di fatto si offre nelle sue tante pagine come una stratificata opera di alta sintesi, aiuta quanti lo leggono a seguire un ramificato percorso, completamente documentato con rimandi specifici, che da ciò che fu ci porta all’oggi. Ossia alle inquietudini che si accompagnano a quanto stiamo vivendo e subendo.

LA STORIA NON SI RIPETE. Forse, proprio per questo non può che inquietare, avendo un ventre sempre fecondo di potenziali nequizie. Auschwitz, non a caso, arriva dopo un’altra catastrofe, quella dell’Europa borghese del primo Novecento. Da qui bisognerà quindi ripartire, per non risolversi in sterili celebrazioni che, nel momento stesso in cui condannano, rischiano di raccontarci semmai della nostra inettitudine. Allora come adesso.