Per parlare dello scrittore, poeta e saggista Fabio Morabito non si può fare a meno di partire dal dato biografico che lo collega a un ristretto gruppo di scrittori accomunati dall’uso di una lingua diversa da quella materna: nato nel 1955 ad Alessandria d’Egitto da genitori italiani, cresciuto a Milano e residente a Città del Messico sin dall’adolescenza, Morabito coniuga infatti un’intensa e apprezzatissima attività di traduttore letterario (si deve a lui la versione spagnola dell’opera omnia di Montale) all’elaborazione di una vasta opera concepita e scritta in uno spagnolo cristallino.

CONSIDERATO ORMAI uno tra i più importanti poeti latinoamericani e autore di due romanzi, quattro libri di racconti e una magnifica antologia di Cuentos populares mexicanos, Morabito era noto in Italia solo grazie a un bel libro per ragazzi e all’edizione quasi segreta di parte delle poesie. Un’assenza cui oggi pone rimedio la traduzione del suo primo romanzo, Emilio, los chistes y la muerte («Nessun nome per Emilio», Exòrma pp. 166, euro 15,50), eseguita a quattro mani da Marino Magliani e Adrián N. Bravi, narratore argentino di nascita e marchigiano di adozione che ha optato da anni per l’italiano e a questo «transito idiomatico» ha dedicato un saggio apparso nel 2017, La gelosia delle lingue (una coincidenza che stabilisce un rapporto speculare fra autore e traduttore).
A una prima lettura Nessun nome per Emilio sembra inserirsi in un filone dalla genealogia illustre, imperniato sul risveglio del desiderio e i riti di passaggio di protagonisti giovanissimi, in cui si inseriscono testi come l’Agostino di Moravia o Battaglie nel deserto, capolavoro del messicano José Emilio Pacheco sull’innamoramento del bambino Carlos per la bellissima madre di un compagno di scuola. È subito evidente, però, che il romanzo non ha modelli e differisce profondamente da quelli cui lo imparenta un’indubbia affinità tematica; in apparenza realistico, è tuttavia contaminato da un’atmosfera onirica e atemporale, accentuata dall’ambientazione in un cimitero dove non arrivano echi dell’esterno e la vegetazione cresce in fitto e selvaggio disordine. Lo sfondo ideale, per un racconto iniziatico che ha i riflessi del mito e include i canonici rischi dell’avventura in terre incognite, il conflitto con il padre e infine la discesa in un tenebroso mondo sotterraneo.
Emilio, dodici anni, è alle prese con la separazione dei genitori, col trasferimento in un nuovo quartiere dove non conosce nessuno e con una memoria totale che lo spinge a imparare compulsivamente i nomi dei morti mentre cerca il proprio, la cui presenza su una lapide farebbe da esorcismo contro la morte. E tra le tombe conosce Euridice, una donna che ha perso da poco il figlio dodicenne, disorientata dal dolore, priva di inibizioni e pronta a stabilire con il ragazzino solitario un rapporto tra l’erotico e il materno, sul quale incombe l’ombra di un incesto simbolico.

La presenza della nuova amica, la cui spontanea impudicizia sfiora l’esibizionismo, turba Emilio e lo induce a un’esplorazione che Euridice asseconda, lasciandosi accarezzare e baciare, incapace com’è di negarsi sia a lui che ad altri abitanti del cimitero, come Adolfo, il beffardo giovanotto che pulisce le tombe, o Apolinar, guardiano analfabeta.

ALLO SMARRIMENTO di Euridice e alla sua fisicità irrefrenabile (non a caso fa la massaggiatrice e aiuta le clienti ad «ammorbidirsi» per affrontare le pretese di mariti brutali) corrisponde l’ansiosa, incerta sperimentazione di un Emilio che scambia baci anche con il chierichetto Rodolfo, bellissimo e insidiato da molti, compreso un becchino minaccioso e feroce. A differenza che nel mito, però, Emilio-Orfeo (armato di un assurdo «rivelatore di barzellette», giocattolo e insieme oggetto magico) riesce a restituire in qualche modo alla vita la sua Euridice e torna dagli inferi per iniziare il viaggio verso l’età adulta.
Quella di Morabito è una scrittura essenziale, elegantissima e limpida, che «pensa» ogni parola in nome di una sobrietà legata, forse, anche all’uso di una lingua appresa e dominata a perfezione, ma insidiata da un’altra che, è l’autore stesso a dirlo, «vive in una sorta di subcosciente linguistico». Ed è con elusiva minuzia che ci viene narrato un microcosmo soffocante, articolato intorno al corpo e al suo carico di desiderio e dolore, al confronto con l’eros e la morte, all’ambiguità della relazione tra maschile e femminile, all’affiorare della violenza e dell’abuso, al faticoso e inevitabile disintegrarsi dell’infanzia.
Nel finale, tra il giallo-arancio dei cempasúchitl (cioè i tagete, fiori del Día de muertos), emerge l’inclinazione dell’autore ad autocitarsi, grazie al riuso, con minime varianti, di un suo racconto del 2006 intitolata Hormigas e dedicato all’incontro col chierichetto, che evoca a sua volta a una memoria d’infanzia citata nel primo dei brevi testi su lettura, scrittura e traduzione contenuti in El idioma materno (2014), un altro incantevole e inclassificabile libro di Morabito.
Non è l’unico caso in cui lo scrittore rimanda a frammenti scritti in precedenza, trasferendoli da un genere a un altro: non un semplice gioco autoriale, ma un modo per stabilire un dialogo fra le sue opere e assegnare ulteriori significati a temi che gli sono cari, mostrandoli in una luce diversa. E questa fedeltà alle proprie costanti, che sembra disegnare un universo chiuso ma non escludente né impenetrabile, finisce per apparirci come la chiave di una poetica coerente e «circolare» di cui Emilio è senz’altro un esempio.