Cultura

Un’infanzia napoletana durante le leggi razziali, tra paura e Resistenza

Un’infanzia napoletana durante le leggi razziali, tra paura e Resistenza

Memoria presente «Il bambino che non poteva andare a scuola», di Ugo Foà per Manni. Un libro che scarta rispetto ad un «semplice» e bel volume di memorialistica destinato ad un pubblico giovane: le pagine azzurre che ospitano delle schede storiche per inquadrare quanto narrato consentono di allargare lo sguardo, inseriscono l’esperienza di un bambino ebreo nel mondo che lo circonda e che agisce sui destini di tutti

Pubblicato più di 3 anni faEdizione del 26 gennaio 2021

Ugo Foà è un signore minuto con gli occhi brillanti e un sorriso ironico. Ha un parlare accurato proprio come è puntuale nel suo libro Il bambino che non poteva andare a scuola – storia della mia infanzia durante le leggi razziali in Italia (Manni, pp. 85, euro 12). Un testo tra memoria personale e schede storiche che fanno del volume un’operazione culturale importante e riuscita. La scrittura è semplice e l’esordio disarmante: «Mi chiamo Ugo, Ugo Foà, un cognome che non si fa fatica ad individuare come ebraico. Ne sono sempre stato orgoglioso, tranne in un periodo particolare della mia vita in cui sul registro di classe non ci poteva stare».

IL LIBRO SI SVOLGE tutto negli anni di scuola mancata. Sono quelli della discriminazione e dell’impossibilità di una vita normale, di cui la scuola perduta diviene il segno più forte.
Napoli, il Vomero, una famiglia ebraica benestante, con la crisi del ’29 per la famiglia iniziano le difficoltà economiche. È qui che il libro scarta rispetto ad un «semplice» e bel volume di memorialistica destinato ad un pubblico giovane: il bordo azzurro contrassegna infatti le schede storiche che iniziano proprio con il racconto della crisi finanziaria – sorprendente in un libro che parla di leggi razziali. Le pagine azzurre che accompagnano il racconto di Ugo consentono di allargare lo sguardo, inseriscono l’esperienza di un bambino ebreo nel mondo che lo circonda e che agisce sui destini di tutti. Gli ebrei infatti non vivevano in una bolla chiusa, in un sottovuoto che riguardava solo loro ed il regime fascista promulgatore delle leggi razziali ed è proprio di questo intreccio continuo che Foà dà conto in modo preciso. Il padre decide di andare a lavorare in Africa, la famiglia cambia casa e la vita, per ora, sembra proseguire sui soliti binari. È nel luglio del ’43 che Ugo bambino si domanda «se c’era un clima strano attorno a noi ebrei; io non me ne accorgevo, ma magari il nonno rabbino aveva già le antenne dritte».

IL RACCONTO PROSEGUE fino alle leggi razziali dell’autunno. «Razza? Ariani? Fascisti? Per me non voleva dire niente – prosegue Foà – io ero un bambino, sapevo bene di professare una religione diversa dalla maggior parte dei miei compagni di classe ma non significava che non facessimo le stesse cose, gli stessi giochi, gli stessi compiti». Eppure l’espulsione da scuola di Ugo e dei suoi fratelli è inevitabile: si organizza una multiclasse e i ragazzi delle superiori studiano privatamente. All’esame finale «i nostri otto spiccavano tra tutti i nomi in ordine alfabetico. Ma spiccava anche quel “di razza ebraica” scritto in rosso accanto ai cognomi». È struggente il racconto di Ugo che va fuori dalla scuola per vedere gli amici scherzare «avrei voluto tanto stare con loro, ma non potevo». Scoppia la guerra, la vita peggiora, le responsabilità di Ugo aumentano: sta a lui procurare la spesa.

Per arrotondare la madre affitta una stanza ad un insegnante alto «poco meno di due metri», Franco Calamandrei: «era chiaro che Mussolini non gli piacesse: ascoltavamo insieme Radio Londra (scheda azzurra su radio Londra, un’altra sui Calamandrei e l’epigrafe ad ignominia di Pietro: «Lo avrai camerata Kesserling il monumento che pretendi da noi italiani…»). E poi, insieme alla fame che cresce per tutti, il racconto dei bombardamenti che distruggono la città, la corsa nei rifugi, la paura, napoletani come gli altri. «Dopo un bombardamento restavano a terra i frammenti dei proiettili dei cannoni antiaerei – scrive Foà – noi aspettavamo che non fossero incandescenti, li raccoglievamo e li vendevamo: il piombo aveva un certo valore, e noi avevamo molta fame. È una sensazione che adesso si fa fatica a spiegare, a immaginare: non era appetito, era letteralmente fame».

Non ci furono ebrei napoletani catturati e deportati a Napoli nei giorni tra l’armistizio del ’43 e le Quattro giornate che Ugo racconta come fosse una cronaca in diretta: «Dai balconi quando sotto passavano i tedeschi gli buttavano addosso sedie e lampadari, vasi da fiori e comodini, bidet e lavandini, era la confusione più totale». «La mattina del 1 ottobre ci svegliammo in un silenzio perfetto»: la città era libera.

OVVIE MA NON SCONTATE le pagine azzurre dedicate alle Quattro giornate e alla Resistenza. Un libro capace di tessere la storia del giovane Ugo dentro e insieme a quello della guerra di tutti contro la fame, i bombardamenti, la povertà, l’occupazione nazista e il pericolo delle deportazioni.

Ugo Foà ha iniziato a raccontare la sua storia vent’anni fa e, il primo giorno di scuola, ha sempre accompagnato i figli, i nipoti e i bisnipoti; a volte un pensiero lo sfiora: «E se la maestra mi dice che il bambino non può entrare perché di “razza ebraica”?». «Non si preoccupi – gli ha detto un ragazzo di una scuola dove è andato a testimoniare – non potrebbe succedere più perché noi non lo accetteremmo e proteggeremmo lei e suo nipote»; in un paese in cui il 15% della popolazione pensa che la Shoah non sia mai avvenuta non è cosa da poco.

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