Un saggio del 1932, ripubblicato dopo 85 anni: di necessità, un grande classico o un’opera molto significativa. Lo smilzo libro che Arnaldo Momigliano pubblicò nel 1932, ora riproposto, non è diventato un classico della storiografia (L’opera dell’imperatore Claudio, a cura di Davide Faoro, Jouvence, pp. xxx-142, € 16,00). Quasi subito è stato superseded dalla traduzione inglese, che con le sue varie ristampe dal 1934 in poi ha dominato nella tradizione degli studi. La riproposta del Claudio nella prima versione è opportuna (sarebbe stato utile riprendere in appendice la nuova introduzione che Momigliano scrisse per la ristampa del 1961). La stesura originale fa capire alcuni punti, utili a chiunque abbia interesse per la storia antica e per (quel che resta del)la cultura italiana.
Momigliano non era fatto per produrre monografie: impaziente da giovane, insofferente all’analisi minuta negli anni maturi, il grande storico del mondo antico trovava dimensione ideale nel saggio. Là poteva meglio porre i problemi, e risolverli a volte in sintesi, con fulminanti aforismi destinati a suscitare lunghi dibattiti esegetici tra i diadochi. Il libro su Claudio, che affianca le monografie sui Maccabei (1931) e su Filippo di Macedonia (1934), è già su questa linea; non è sistematico, ma costruito per affondi su temi specifici. Il lavoro muove da una serie di nuovi documenti, allora di recente pubblicazione, che portano a analizzare il governo di Claudio dal punto di vista amministrativo e politico. Non dunque una biografia, ma una indagine storica, su un tema cui Momigliano stava lavorando a quel tempo: la posizione dell’imperatore rispetto all’impero.
Con forza si chiarisce che non si può più studiare Claudio (e la storia imperiale) limitandosi ai temi degli storici antichi, perché restano esclusi tutti i temi di «ordinaria amministrazione», quelli che fanno capire come l’impero romano «funzionava» nella realtà. Ecco allora nel libro gli approfondimenti sulla cultura storica di Claudio, sulla politica religiosa, sulle scelte di amministrazione: i temi a cui conducevano i nuovi documenti. E da essi vengono le grandi questioni sull’impero. Momigliano individua nel principe erudito una contraddizione personale e storica. Claudio comprendeva quanto profondo fosse il radicamento di Roma nella tradizione e però avvertì la necessità di un cambiamento, che egli non riuscì a indirizzare e governare. Ne derivò il rapporto conflittuale con il senato. La distanza dal principe goffo, stordito e crudele disegnato dalle fonti, e spesso ripreso dai moderni, è grande.
Anche se singoli punti sono stati criticati, il lavoro di Momigliano resta «attuale». Lo mostra il confronto con le sintesi più recenti: nel Claudius Caesar di Josiah Osgood (2011) il testo dello storico italiano è indicato tra i fondamentali per una riflessione sul tema. Come detto esso non voleva essere, e non è, una biografia. Nel primo Novecento il genere aveva grande successo: basta pensare ai libri di Emil Ludwig, o a I, Claudius di Robert Graves (1934). Ma la biografia era screditata dal punto di vista scientifico, per le inevitabili incursioni nell’invenzione e nella psicologia: semplice Belletristik. Su questo giudizio concordavano Gaetano De Sanctis e Benedetto Croce, i riferimenti culturali di Momigliano. Ecco perché egli chiarì che nel suo libro «le Messaline e le Agrippine non avranno occasione di apparire». L’acida osservazione attirò l’attenzione dei recensori. L’analisi generale del regno di Claudio e il giudizio di Momigliano si leggono nella voce scritta per l’Enciclopedia Italiana (1931), o nel manuale per le scuole (1934). Nella «Treccani» il rigetto dei dati biografici resta netto: «Tanto meno possono riguardare la storia le sue disgrazie coniugali». Anni dopo, studiando l’origine della biografia in Grecia (1971), Momigliano spiegò, riferendosi alla propria formazione, di essere stato molto interessato allo studio delle personalità, ma di aver con cura evitato nei suoi lavori giovanili ogni dettaglio meramente biografico.
Tale dunque è il contesto del libro. Utile considerarne anche i tempi di scrittura. L’introduzione è datata Novembre 1930-Agosto 1931. Momigliano, nato nel settembre del 1908, si era laureato a Torino nel giugno del ’29, perciò ultimò il Claudio prima di compiere 23 anni. Non vi si trova alcun «ringraziamento» (sottogenere letterario accademico, questo, che meriterebbe uno studio specifico), né alcun omaggio esplicito al maestro De Sanctis. In compenso Momigliano cita parecchi lavori propri a stampa, e esprime giudizi taglienti nei confronti di studiosi affermati. Una nota liquida le teorie su Augusto di Meyer, Levi, De Francisci e Ferrabino; il Seneca di Marchesi è detto «bello, se anche poco profondo».
La precoce indipendenza di giudizio e l’insopprimibile tendenza polemica di Momigliano sono già ben visibili: lo conferma la schermaglia con l’etruscologo Aldo Neppi Modona (1895-1985). Questi, recensendo il Claudio, notò la struttura non del tutto equilibrata del libro, e soprattutto scrisse che «non sarà mai abbastanza raccomandato a chi è giovanissimo d’anni la prudenza e la moderazione nella critica». Ciò scatenò la reazione di Momigliano, che respinse le riserve sul libro e l’accusa di aver emesso giudizi «denigratòri» su altri studiosi, sostenendo che Neppi capiva poco di storia, se intendeva tenere a freno la critica. Il giovane Momigliano condusse spesso polemiche simili: anche all’interno della «scuola» di De Sanctis, anche nei confronti del maestro, il dibattito fu sempre molto franco, talora teso. Egli era particolarmente allergico ai ragionamenti privi di una precisa definizione del problema: rinfacciò questa carenza a Neppi, e non solo a lui. Oltre alla schermaglia scientifica, e alle scelte politiche, a dividere gli studiosi c’erano anche le prospettive di carriera. Questa per Momigliano si prospettava difficile: perciò egli vigilò sui modi in cui il suo libro veniva accolto.
La recensione di Neppi uscì su una rivista torinese, diretta dal grecista Taccone (che Momigliano non stimava, ma con cui aveva studiato). Il rivale Mario Attilio Levi discusse il libro sull’autorevole «Rivista di Filologia», pure torinese e co-diretta da De Sanctis. «Athenaeum», la rivista di Pavia, tacque. La fiorentina «Atene e Roma» affidò il pezzo a un letterato, che se la cavò con un generico e verboso plauso. Molti forse aspettavano una più convenzionale monografia, che non venne (se non in forma condensata, per la «Treccani»). Per il libro di un giovanissimo, allievo di un grandissimo storico avverso al regime, non era poco. Chi poteva prevedere che pochi anni dopo Momigliano avrebbe vinto la cattedra di Storia romana a Torino?
Il Claudio riscosse forse più attenzione all’estero: tra le varie recensioni Ipicca quella di Hugh Last. Lo storico inglese approvò, con minori riserve, la sintetica e documentata ricerca di Momigliano, ispirata al «rational method» di De Sanctis; ne favorì anzi la traduzione inglese. Chi poteva prevedere che pochi anni dopo Last avrebbe aiutato Momigliano, privato della cattedra dopo le leggi razziali del 1938, a trasferirsi in Inghilterra? Anche la vita di Claudio conobbe eventi non prevedibili. Quando nel 20 d.C. in senato si votarono, in circostanze gravi, onori ai parenti del defunto principe Germanico, il relatore del decreto si dimenticò di Claudio. Il nome venne frettolosamente aggiunto in coda. Chi poteva prevedere che pochi anni dopo quel parente trascurabile sarebbe diventato imperatore? Per Tacito era la prova che «le vicende umane sono travolte da un destino che si prende gioco di loro» (Annali, 3.18).