«Quello che è impossibile, è giudicare», così, al termine di un’inchiesta senza arresti, un coraggioso clochard dichiarava a Maigret. Era un medico da tempo senza fissa dimora scampato a un’aggressione con tentato annegamento nella Senna, risoluto a non confidarsi con il commissario. Testimone di un omicidio, e per questo assalito a sua volta, il vagabondo non aveva denunciato l’assassino per non turbarne i figli piccoli, la serenità per loro possibile, almeno nell’infanzia, benché vivessero su una chiatta. Era un caso ricco di saggezza nella Parigi dei rifugi sotto i ponti: Maigret e il barbone (Adelphi 2008).
L’impossibilità di giudicare è un convincimento in primo luogo di Georges Simenon, agli occhi del quale – come a quelli di Maigret – esistono più vittime che colpevoli, o forse solo vittime. E l’ambiente di chi vive d’elemosine e d’espedienti, o scaricando verdura alle Halles, è particolarmente adatto a insinuare dubbi, tanto aspre si mostrano frizioni sociali e iniquità. Così, sospeso tra vincitori e vinti, tra vagheggiamenti di riscatto e timori di rivalse, è un altro romanzo di Simenon che ha per protagonista un barbone, Il Sorcio, ritradotto da Simona Mambrini per Adelphi ( «Biblioteca», pp. 155, € 18,00) a cinquant’anni dalla versione mondadoriana. Il Sorcio è astuto e colto – aveva suonato l’organo e insegnato solfeggio –, ma è soprattutto un irriducibile professionista della sopravvivenza: «a forza di buffonate» s’intrufola ovunque, sfrutta il suo «sguardo infantile» e la «sua vecchia faccia rugosa», e per essere sicuro di ottenere uno spicciolo sa che conviene «far ridere la gente anziché impietosirla».
Lungo la doppia inchiesta – le trovate del barbone per tenersi la manna di un portafogli gonfio di dollari e la testardaggine del triste e perennemente raffreddato ispettore Lognon – germoglia un caleidoscopio di personaggi: un finanziere svizzero protestante, morigerato e scomparso, i suoi sprezzanti e imperturbabili colleghi, un’ex prostituta diventata «una giovane mamma modello», una magnifica ungherese esagitata, una banda sgangherata e un pavido trafficante di francobolli, la moglie afflitta e rivendicativa del mai promosso Lognon, il commissario Lucas con la sua pipa e il suo distacco, il «monocolo» che, in «una stanza di una grandiosità inaudita» rappresenta per sineddoche il compassato ambasciatore d’Inghilterra.
Manca Maigret, è stato detto ed è oggettivo, ma attenzione: a volte i più presenti, sia pure per muta evocazione, in modo solo etereo e fantasmatico, sono proprio gli assenti.
Il Sorcio è a mezza strada tra i «romanzi-romanzi» e le inchieste poliziesche (la copertina ha un’adattissima campitura gialla), ed è proprio questa sospensione tra due generi, più che la trama, a essere interessante, a farne un’opera rivelatrice della profonda curiosità di Simenon per «l’uomo nudo», còlto nella sua «essenza», non «quale si mostra in pubblico e si guarda allo specchio». Creando i suoi personaggi cercava «di capire un po’ di più l’uomo», come ha dichiarato a Francis Lacassin cui si deve la raccolta delle belle e generose Conversazioni con Simenon (trad. di Elga Mugellini, Lindau, pp. 188, € 17,50), in seconda edizione dopo la prima del 2004. A prescindere dalle valutazioni su letterarietà e/o mestiere della scrittura di Simenon, sul suo metodo così inossidabilmente, ma felicemente produttivo, non si può non riconoscergli, accanto a una maestria invidiabile, anche una perspicua chiarezza di sguardo, una curiosità incessante per i tipi umani e per le curvature e le crisi delle esistenze, in ogni strato sociale. Non altrimenti si spiegherebbero i molti cultori delle sue storie, «dure» o poliziesche. Aveva ben ragione Henry Miller quando, in un articolo del 1961 ora raccolto in un libro a più autori, insieme celebrativo e interpretativo: Il senso di Simenon per la fuga (trad. di Claudina Fumagalli, Medusa, pp. 117, € 13,00), lo definiva «né ottimista né pessimista, ma qualcuno che vede chiaro in lungo e in largo, qualcuno che non giudica e non condanna, che è costantemente in sintonia con il ritmo della vita».
Mentre sviluppa i suoi temi, dei quali cartina di tornasole è la «fuga iniziatica» (Lacassin), fa agire tutte le sue esperienze: le letture scientifiche e la mondanità, i tre anni e mezzo di giornalismo che gli hanno permesso di «osservare tutte le classi sociali», i reportage di viaggio che l’hanno reso severo nei confronti del colonialismo e diffidente verso il turista, «nemico del mondo intero».
Che si pongano in luce la sensibilità olfattiva di Simenon indagata da Messac; o l’inclinazione gastronomica sondata da Courtine in Maigret che «come il suo autore lavora la pasta umana» (entrambi nel libro Medusa); o l’assunto balzachiano in cui credeva – un personaggio «è chiunque là fuori, ma che arriva fino al limite di se stesso» –, il romanziere di Liegi ha sempre avuto particolare, percettiva consonanza coi suoi tempi: si pensi a quanto è pienamente, perfettamente novecentesco ciò che, conversando, confidava a Lacassin: «Credo solo nel subconscio non credo nell’intelligenza».