Nel suo Trattato sulle passioni del 1649 Cartesio poneva all’apice delle passioni primarie dell’uomo la meraviglia, che definiva una passione «cognitiva», perché spingeva alla ricerca scientifica. Cartesio però toglieva – contrastando così lo schema delle passioni tracciato da Tommaso d’Aquino – la paura, perché, così pensava il filosofo, la paura è in realtà già insita nella stessa meraviglia, passione, quest’ultima, che il progresso scientifico è destinato – seppur in un tempo indefinito – a cancellare.
Lo scandaglio, strumento scientifico il cui scopo è proprio quello di «sondare» l’ignoto, è il simbolo a cui lo scrittore e giornalista svedese Patrik Svensson – noto in Italia grazie al fortunato bestseller internazionale del 2019 Nel segno dell’anguilla (trad. di Monica Corbetta, Guanda, Milano 2019), vincitore in Svezia del prestigioso Augustpriset, ha dedicato il suo secondo saggio narrativo, L’uomo con lo scandaglio. Storie di mare, abissi e meraviglie (trad. di Monica Corbetta, Iperborea, pp. 222, euro 18), che presenterà giovedì al Festivaletteratura di Mantova, in dialogo con Leonardo Piccione in un incontro dal titolo «Gente di mare». Sì, perché all’origine della parola «sondare» c’è proprio il mare: il subundare – immergere – contiene la parola «onda», e sono proprio storie di mare, di navigazioni, di scoperte nei secoli, quelle che Svensson ci racconta nel suo gustoso volume.

Secondo lei la meraviglia è una passione che davvero il progresso scientifico è idealmente destinato a cancellare?
Non credo che la scienza sarà mai in grado di cancellare la meraviglia, nemmeno in un periodo indefinito. Ci saranno sempre domande irrisolte, sempre un senso di mistero, e l’oceano è forse il miglior esempio di questo. Ma credo davvero che lo stupore abbia una funzione cognitiva. Il senso di meraviglia è spesso la forza trainante che si nasconde dietro la ricerca scientifica, forse possiamo dire che la scienza è persino dipendente dal mistero e dall’ignoto. La curiosità e il senso di meraviglia sono più di semplici passioni, credo. Fanno parte di ciò che significa esistenzialmente essere umani.

Il suo saggio ci aiuta a capire molte cose su quella superficie d’acqua ininterrotta che dà il colore dominante alla celebre fotografia «Blue Marble» scattata dall’equipaggio dell’Apollo 17 nel 1972. Per sette ottavi della propria storia la vita è esistita solo in mare, mentre noi facciamo la nostra comparsa solo tra i trecentomila e i duecentomila anni fa. Anche l’immagine dell’uomo con lo scandaglio che dà il titolo a un capitolo del suo libro e alla versione italiana del saggio è legata all’acqua. Il mare è all’origine sia della letteratura che della scienza e della tecnica. Eppure, lei ci spiega, l’uomo con lo scandaglio non spera necessariamente di trovare qualcosa di misurabile, ma al contrario qualcosa di incommensurabile…
Per me lo scandaglio, le migliaia di anni in cui gli uomini hanno misurato la profondità dell’oceano senza potervi scendere lì di persona, è un simbolo potente della curiosità umana. Abbiamo chiaramente bisogno di entrare in contatto con quelle aree che ci sono inaccessibili, in un modo o nell’altro. E credo sinceramente che a volte non sia la scoperta in sé ciò che conta di più, ma l’atto di cercare. La scienza non è una raccolta di risposte. La scienza è un processo, e proprio come per l’uomo con lo scandaglio, l’importante è continuare a fare domande, ancor più che cercare una risposta definitiva.

Tra le numerose storie che lei racconta, particolarmente interessante è il suo incontro con Peps Persson, musicista svedese originario della campagna della Scania. Persson non appartiene alla serie dei famosi navigatori, astronauti e oceanologi, eppure è un esploratore come loro e la sua maggiore «scoperta» è il ritmo universale, che «scaccia la solitudine e l’isolamento e lega gli uni agli altri». L’anima stessa, pensava Persson non è nei singoli individui, ma «tra» gli esseri umani, è quel ritmo che riempie il vuoto tra ogni essere vivente, lo stesso ritmo «circadiano» che è tanto dell’uomo quanto della natura…
Sì, ho incontrato Peps Persson solo una volta, ma è stato un incontro che ha avuto un grande significato per me. Immagino che in Italia sia completamente sconosciuto, ma è stato molto importante per me e per molti altri in Svezia per il modo in cui è riuscito a vedere, attraverso la musica che ha creato, come tutto e tutti siano in qualche modo collegati. Seppe coniugare la musica popolare svedese della sua infanzia, lo schottis e la polka, con il blues americano, trovò nella musica araba il ritmo e la lingua tonale della musica dell’Africa intera che avrebbe viaggiato sulle navi fino ai Caraibi, sposò la musica svedese al reggae giamaicano, sempre alla ricerca di punti di contatto che unissero quel che all’apparenza era inconciliabile. In realtà, è morto poco dopo che ho finito di scrivere il libro. Ho pensato che sarebbe stato interessante cercare di collegare l’idea di Persson di un ritmo universale o di un’anima con un approccio scientifico all’argomento. E nel ritmo circadiano si trova proprio questo, un’espressione di come tutta la vita sia collegata alla rotazione della Terra. Una sorta di ritmo universale. Se vogliamo chiamarlo anima, o «anima del mondo», forse è solo una questione semantica. Ma credo sia un bellissimo esempio di come anche la scienza possa suscitare meraviglia dinanzi al mondo naturale.

Tra i suoi racconti spicca anche la storia di Robert Dick, «il panettiere-scienziato di Thurso». Per lui, cristiano devoto, la mutevolezza inesorabile della vita non si conciliava con l’idea di un creatore onnipotente. Una visione, questa, che storicamente ha messo il darwinismo in conflitto con la fede cristiana. Secondo lei le due cose sono conciliabili?
Questa è una domanda che è stata oggetto di dibattito teologico per molto tempo. Non sono un credente e per me la risposta breve è no, le storie nella Bibbia non sono conciliabili con una comprensione scientifica del mondo. Ma, allo stesso tempo, ho avuto molte discussioni interessanti con persone di fede su questi argomenti, e penso che se si è aperti a pensare e parlare della vita e dell’esistenza in modi diversi, non solo con un approccio puramente scientifico, è possibile approfondire la comprensione della questione stessa così come quella relativa al senso dell’esistenza.

Scandagliare gli abissi, entrare nel ventre della terra e osservare il pianeta «dall’alto». Se potesse scegliere tra un viaggio spaziale e uno negli abissi, lei verso cosa si indizzerebbe?
Devo essere sincero, non credo che avrei il coraggio di scendere nelle profondità dell’oceano. È un luogo che in tutti i modi si manifesta come non adatto alla vita umana, dove persino il concetto di tempo sembra non esistere, dove non ci sono notte e giorno e non ci sono stagioni, dove è sempre completamente buio, sempre la stessa temperatura. Naturalmente si potrebbe dire lo stesso dello spazio esterno, ma se dovessi essere costretto a scegliere, credo che opterei per lo spazio.

I suoi libri però ruotano tutti intorno al tema dell’acqua. Nel suo ultimo saggio ci svela l’origine di questa passione per il mare. Che cosa le ha dato, personalmente e letterariamente, l’opera di Rachel Carson, autrice di opere bellissime sul mare?
Rachel Carson ha avuto un significato profondo. Credo che la grande rivelazione per me  sia stata il suo secondo libro, Il mare intorno a noi del 1951 (tr. it. di Gianluigi Mainardi, Piano B edizioni). È una pubblicazione scientifica, ma allo stesso tempo è così splendidamente scritta, a tratti quasi poetica. È stata d’ispirazione per me scoprire che puoi effettivamente scrivere di scienza e fatti naturali rendendola comunque un’esperienza di lettura bellissima. E anche che puoi avere un approccio scientifico al mondo e comunque essere ugualmente in grado di provare un senso di meraviglia dinanzi a esso.