Federico Ghizzoni fa il suo mestiere di amministratore delegato e la vende così: “Per Unicredit il 2013 è stato l’anno della svolta; ora siamo pronti ad aumentare ulteriormente la nostra offerta di credito, e a dare supporto all’economia reale in Italia e in Europa”. Certo però i conti dello scorso anno di piazza Cordusio sono da autentico brivido, visti i 14 miliardi di euro di perdita netta. Giustificata con la copertura di crediti a rischio per 13,7 miliardi; la restituzione di 5 miliardi dei prestito Ltro della Bce (che è di ben 26 miliardi), e nuove svalutazioni degli avviamenti. Alla perdita peraltro potrebbero aggiungersi altri 1,2 miliardi se la vigilanza europea Esma chiederà di iscrivere a patrimonio netto – e non a conto economico come è stato fatto – il beneficio contabile della rivalutazione della quota (22,1%) di Unicredit in Bankitalia: si tratta di 1,4 miliardi, cui vanno sottratti 200 milioni di imposte.

Nonostante il rosso monstre, ben superiore anche ai 9,2 miliardi di perdita del bilancio 2011 (mentre nel 2012 c’era stato un utile di 865 milioni), Piazza Affari premia il titolo della più grande banca italiana – e non solo – con un apprezzamento del 6,21%. Gli analisti di borsa osservano: “L’ulteriore pulizia dei conti con il recupero di un buon livello di copertura dei crediti, e la non necessità di fare ricorso ad aumenti di capitale, sono due fattori che hanno fatto reagire bene il titolo”. Un terzo fattore, quantomai doloroso per il lavoro, è l’annuncio del piano industriale 2015-18, che prevede il taglio di 8.500 dipendenti, di cui 1.500 in Germania (“già concordati”), 900 in Austria e ben 5.700 in Italia. “Questa ipotesi – puntualizza Ghizzoni – verrà gestita con i soliti ammortizzatori, gli scivoli per i prepensionamenti”.

Va da sé che i sindacati del credito si arrabbiano: “Basta con i tagli – risponde Agostino Megale della Fisac – e con l’attacco all’occupazione”. Il segretario dei bancari Cgil guarda anche al bilancio: “Sono numeri estremamente preoccupanti, che ci portano a chiedere conto all’intero management di come si sia resa necessaria una pulizia di conti di queste dimensioni, tra svalutazione degli avviamenti e rettifiche su crediti”. Anche gli altri sindacati alzano le barricate: “In un’azienda normale – osserva Massimo Masi della Uilca – quando si dichiara il 10% di esuberi del personale, il primo atto conseguente sarebbero le dimissioni del top management”. Mentre Lando Sileoni della Fabi, in pieno congresso, fa un ragionamento più generale: “Il sistema italiano ha accumulato crediti problematici che hanno inciso, sul totale dell’attivo, quasi cinque volte rispetto alla Francia, e oltre sei volte alle Germania. Per questo occorre inventare un nuovo modello di banca che recuperi il suo ruolo sociale, e criteri di efficienza nella gestione del credito”. In questo contesto, aggiunge Simeoni, la difesa dell’occupazione deve essere “il primo cardine” della nuova piattaforma contrattuale. Anche se le trattative con l’Abi, dopo il riuscito sciopero di fine ottobre, sono ancora ferme, dopo la disdetta del contratto e la messa in discussione del Fondo di solidarietà interbancario, ammortizzatore sociale di una categoria che ha già perso 50mila addetti e rischia di vederne sparire altri 20mila.

Ad alzare la temperatura anche il fatto che la banca proporrà comunque ai soci il pagamento di un dividendo da 10 centesimi per azione, con azioni di nuova emissione oppure, su richiesta, direttamente in contanti. Ghizzoni e i suoi manager vedono rosa per il futuro – 2 miliardi di utile quest’anno e addirittura 6,6 nel 2018 – e specificano un dato: “Gli accantonamenti aggiuntivi portano il livello di copertura dei rischi al 52%, su livelli pari al 2008 e ben al di sopra delle altre banche italiane”. Ma è come dire che in un paese di ciechi l’orbo è re. Certo Unicredit si protegge dall’asset quality review della Bce. Ma bel 2015 dovrebbe restituirle 21 miliardi. E per i crediti deteriorati, ancora tanti, resta in piedi l’ipotesi di una bad bank. Contestatissima dai sindacati: “Sarebbe una strage di imprese – chiude Sileoni – quando piuttosto andrebbe abbandonato il modello del capitalismo di relazione, con cui sono stati affidati 8 miliardi a Zalesky, Ligresti, Zunino. Il 10% dei crediti totali alle imprese, destinati ad alimentare la montagna di sofferenze”.