Dunque siamo finalmente arrivati al fatidico 2015, anno spartiacque, tempo decisivo per l’agenda dello sviluppo. Quindici anni fa il ciclo degli Obiettivi di sviluppo del millennio (Millennium Development Goals), inaugurato con molte fanfare a New York da un summit internazionale e una solenne dichiarazione, sanciva l’inizio del nuovo millennio all’insegna dell’impegno globale per superare la nefandezza della dilagante povertà e dell’insopportabile sperequazione nel destino umano sul pianeta. Otto obiettivi ben misurabili per ridurre la povertà estrema, ottenere l’istruzione primaria universale, promuovere la parità di genere, ridurre la mortalità infantile, migliorare la salute materna, combattere le maggiori malattie infettive e garantire la sostenibilità ambientale: il tutto attraverso una partnership globale per lo sviluppo.
Con l’approssimarsi del 2015, anno di conclusione di questa roboante mobilitazione, il dibattito si è dipanato con un certo fervore sulle ragioni dell’unfinished job, il lavoro non concluso degli Obiettivi del millennio, e su come proseguire l’opera. In effetti, non solo gli Obiettivi del millennio sono stati un correttivo che non ha scalfito in nulla gli ingranaggi della povertà e della disuguaglianza nel mondo, ma gli obiettivi stessi non sono stati raggiunti e anzi, in alcuni paesi – per esempio – i dati sulla salute materna sono perfino peggiorati. Se i Millennium goals siano stati o no una benedizione per i paesi interessati è argomento di vivace dibattito tra gli specialisti, e se ne discute persino nelle agenzie di cooperazione internazionale di alcuni governi (l’Italia ha altro a cui pensare). Chi scrive si limita a evidenziare alcuni aspetti di non poco conto, che vanno a condizionare gli scenari in fase di costruzione per l’agenda post-2015, quella definita dei Sustainable Development Goals: gli Obiettivi dello sviluppo sostenibile.
Per come sono stati concepiti, gli Obiettivi del millennio hanno certamente creato uno stimolo, ma non hanno affrontato le questioni cruciali dello sviluppo – che investono le regole del gioco tra stati, l’autodeterminazione dei popoli e la equa distribuzione delle risorse del pianeta – favorendo piuttosto un approccio frammentario, rigidamente settoriale, persino competitivo dei singoli obiettivi impigliati fra loro nella corsa per la misurabilità. Alcuni analisti del sud hanno parlato di una «corruzione del sistema nei paesi», forzati ad orientarsi verso politiche irrealistiche e fisiologicamente irraggiungibili. Nel promuovere un’agenda per lo sviluppo determinata nuovamente dai paesi donatori, l’aspetto più problematico dei Millennium goals è l’ottavo e ultimo obiettivo. Quello che prevede la partnership globale attraverso l’istituzionalizzazione quasi ideologica della partecipazione del settore corporate nelle politiche contro la povertà, e l’esplicitazione della destinazione privatistica di alcuni dei traguardi fissati. In altre parole, gli Obiettivi del millennio sono stati il primo banco di prova su scala planetaria dell’Un Global Compact, la controversa e contestata piattaforma delle Nazioni Unite con il mondo del business (leggasi, le multinazionali) per co-finanziare le conseguenze della globalizzazione sulla sopravvivenza del sud globale senza dover più parlare di nuovo ordine economico mondiale.

Otto anni dopo il tracollo finanziario del 2008, seduta com’è sull’orlo dell’abisso dovuto all’acuirsi dei conflitti e di una crisi ambientale globale – «un risveglio di civiltà», come lo definisce nel suo ultimo libro Naomi Klein – sarebbe del tutto desiderabile che la comunità internazionale impegnata nel negoziato per i futuri Obiettivi di sviluppo sostenibile considerasse seriamente la necessità di un cambio strategico delle politiche da mettere in campo. E sarebbe desiderabile che i decisori politici che hanno avviato quel negoziato lo scorso settembre all’Assemblea Generale dell’Onu per concluderlo nel 2015, usassero l’opportunità diplomatica degli Obiettivi di sviluppo sostenibile per produrlo veramente, il cambiamento.

Alcune condizioni si rendono necessarie, tuttavia, perché l’agenda post-2015 possa proiettare il nuovo orizzonte intergenerazionale di sviluppo che il mondo esige, soprattutto in un tempo di instabilità geopolitica e alterazione delle regole della democrazia, come quello che viviamo.

In primo luogo, lo sviluppo sostenibile è una condizione indispensabile per tutto il mondo, non solo per i paesi del sud globale. Il livello di vulnerabilità sociale e di disuguaglianza strutturale che si riscontra tra paesi e all’interno degli stessi paesi fa sì che la rappresentazione classica nord-sud del mondo – nord sviluppato e sud da sviluppare – sia ormai una vecchia chiave interpretativa che non apre più nessuna porta, e che soprattutto non offre soluzioni per il futuro. L’ultimo rapporto dell’Undp sullo sviluppo umano chiarisce molto bene questo punto quando formula analisi e raccomandazioni per sostenere il progresso umano.

È necessario uno statuto normativo che obblighi la comunità internazionale allo sviluppo sostenibile, e non basta il regime di norme volontarie («soft norm») su cui poggia il mandato negoziale dei governi delle Nazioni Unite su questa materia. La condizione di vincolo è indispensabile se si vuole ristabilire l’equilibrio normativo fra l’agenda dello sviluppo e quella definita in altre sedi istituzionali intergovernative. Si pensi ad esempio all’Unione europea – che misura con smania ragionieristica la performance degli stati sulla base dei criteri finanziari, intervenendo con gravi sanzioni contro i Paesi che violano gli indicatori di stabilità economica assunti a riferimento – ovvero all’Organizzazione Mondiale del Commercio, capace persino di giudicare i governi sulla base delle loro violazioni commerciali.

Un’altra condizione indispensabile riguarda la democrazia economica, e finanziaria. La piramide del Credit Swisse Global Wealth Report relativa al 2013 illustra bene come l’opulenza del pianeta sia definitivamente insostenibile: il 91,6 per cento dell’umanità controlla il 17 per cento della ricchezza, il 7,7 per cento della popolazione del mondo controlla il 42 per cento della risorse finanziarie e lo 0,7 per cento ha in mano il 41 per cento della ricchezza globale. Il reddito globale è trasferito verso la punta dell’iceberg dei più ricchi, segnatamente l’élite finanziaria che continua a essere avvantaggiata dalla privatizzazione del mondo, che non vuole regolamentazioni, e che influenza ormai senza freni le politiche globali delle Nazioni Unite. In questa prospettiva, l’agenda per lo sviluppo sostenibile non può essere sganciata dall’iniziativa avviato nel giugno 2014 presso il Consiglio dei Diritti Umani di definire la responsabilità degli attori economici transnazionali sul fronte dei diritti umani, in un’ottica di regolamentazione pubblica e superamento dei codici più o meno volontari di contenimento del danno provocato dalle stesse società transnazionali.

Perché i presupposti di questi scenari vengano a determinarsi, serve una società civile più esigente e coraggiosa. Gli Obiettivi di sviluppo sostenibile hanno creato legioni di operatori dello sviluppo che hanno semplicemente cessato di farsi domande su che cosa sia veramente lo sviluppo, in un mondo globalizzato. Che il 2015 possa riportare la società civile alla vocazione sua propria, e sia in questo senso un anno di svolta.