Per poter parlare efficacemente di problema che arriva da lontano abbiamo bisogno almeno di un nome preciso, nuovo e snello che riassuma immediatamente una serie di concetti complicati stratificati nella storia e nella società.

Ci avevano provato con un ostico “discrimination based on skin complexion”, cioè discriminazione in base al colore della pelle; tante parole per dire che il complesso indiano per la pelle chiara – estendibile a buona parte dell’Asia, è vero, ma qui ci atterremo strettamente al subcontinente – non è propriamente razzismo e nemmeno “castismo”, il sottoinsieme del razzismo con caratteristiche hindu.

Un termine particolarmente azzeccato lo ha adottato qualche anno fa Radhika Parameswaran, docente presso la School of Journalism dell’Indiana University, chiamando “colorismo” questo fenomeno di discriminazione predominante in India.
In un’intervista dell’anno scorso pubblicata sul blog di Jyoti Gupta, graphic designer che si occupa di nuovi media, Parameswaran ha spiegato che usando il termine colorismo – un -ismo come razzismo e sessismo – stiamo dicendo che «il modo in cui le persone dalla pelle scura vengono trattate come inferiori è sistematico, diffuso e coinvolge istituzioni sociali, economiche e culturali che devono essere contrastate dalla società».

Il colorismo in India lo si vive fin da piccoli, quando i bambini e le bambine di carnagione chiara sono “belli”, mentre quelli più scuri sono magari “simpatici” ma sicuramente “poverini”, compatiti per una pelle da tenersi addosso con fatica per tutta la vita. Un marchio impresso dalla lotteria della genetica di un paese che ha vissuto flussi migratori dall’Asia centrale più o meno quattromila anni fa, quando gli Arii arrivarono nell’attuale India settentrionale e la trovarono popolata di tribù autoctone, scure, oggi generalmente indicate come adivasi.

Il mix diede vita al sanscrito, alla religione hindu – la chiameremo con questo nome solo dalla fine del XIX secolo, quando Swami Vivekananda “presentò” la religione induista al Parlamento delle Religioni di Chicago – e al celeberrimo sistema delle caste, organizzato in modo che sul gradino più alto rimanessero gli invasori (i “bianchi”), e via via a scendere di importanza fino agli ultimi, i dalit e gli adivasi, inevitabilmente scuri. Molto scuri.

Il classismo cromatico si è rivelata un’intuizione brillante, in grado di resistere al susseguirsi di ere e inquilini stranieri, abbracciato entusiasticamente dalla reggenza vittoriana – una dei pochi costumi ai quali gli inglesi non si sono sentiti in dovere di educare gli indiani, a loro modo già abituati al pallore come sinonimo di bellezza – e arrivato intatto fino ai giorni nostri, quando l’essere scuri di carnagione complica le trattative matrimoniali, i rapporti interpersonali e mina a fondo la fiducia in un sé troppo distante dall’immaginario di successo dell’India moderna.

Il modello vincente a cui aspirare è imposto dai canoni estetici della tradizione e riproposto in salsa cool dall’industria cinematografica di Bollywood, presidiata da eroi ed eroine innaturalmente bianchi (Shah Rukh Khan, Aamir Khan, Hrithik Roshan e John Abraham per gli uomini, Katrina Kaif, Karina Kapoor, Priyanka Chopra e Deepika Padukone per le donne, ad esempio) considerando il colorito della maggior parte della popolazione indiana. Senza contare la quasi totalità degli indiani del sud – ceppo dravidico – che lo sbiancamento genetico degli Arii lo scamparono in toto.

Per ovviare all’ostacolo fisico dell’immedesimazione coi miti del cinema, l’industria cosmetica da anni promuove prodotti sbiancanti in continua evoluzione: dalle creme si è passato velocemente ai bagnoschiuma, shampoo, saponette, maschere per il viso, saturando un mercato del whitening che in India si stima intorno ai 40 milioni di dollari l’anno, in crescita.

Le pubblicità di prodotti “Fair and Lovely”, per donne, hanno raggiunto vette di surrealismo inesplorate, come questo spot del deodorante Dove che, sbiancando le ascelle colpevolmente scure dopo la depilazione, spazza via tutti i freni inibitori che impediscono alle tre protagoniste – bianche, vestite di bianco – di alzare le braccia. Oppure questo sapone intimo Clean&Dry che non solo igienizza vagina e zone limitrofe, ma le schiarisce, aumentando il sex appeal di lei e, di riflesso, del compagno.

Nella versione maschile dei prodotti cosmetici è celebre la linea di Emami “Fair and Handsome”, con una serie di spot dove il macho dal cuore d’oro del cinema indiano, Shah Rukh Khan, dimostra che sbiancarsi la carnagione non è cosa da effemminati, ma punto di partenza per la scalata al successo (nel lavoro, con gli amici, con le donne).

L’insofferenza diffusa verso il colorismo ha trovato nella campagna Dark is Beautiful il mezzo col quale bucare il silenzio-assenso attorno a una tradizione discriminatoria molto radicata, cavalcata dall’industria cosmetica pronta a monetizzare sull’insicurezza indotta nelle persone dalla carnagione più scura.

Una condizione di assoluta normalità, guardando ai grandi numeri, ma che il martellamento continuo anche della pubblicità ha trasformato lentamente in una sorta di patologia, con creme sbiancanti che “riparano” le cellule ridando alla pelle una tonalità più chiara, più sana.

La campagna, promossa da Kavitha Emmanuel di Women of Worth, dal 2009 combatte una battaglia online per spingere Emami a ritirare gli spot coloristi di Shah Rukh Khan. Una serie di video, interpretati da attrici orgogliosamente scure (Nandita Das, Anu Hasan, Tanishtha Chaterjee e Vishakha Singh, per ora), racconta l’insensatezza della discriminazione di pelle e invita tutti a fregarsene degli stereotipi, ad essere un-fair (non chiari ma anche scorretti) e non vergognarsi della propria carnagione.

«La campagna non si concentra tanto sulla provenienza della discriminazione basata sul colore della pelle, quando sull’attaccarla» ha spiegato Emmanuel a ManifestoAsia. «La verità è che esiste ovunque, addirittura nelle nostre case. È sfacciata negli annunci matrimoniali, nei film e nell’industria pubblicitaria. Il cambiamento deve iniziare dalle nostre case e diffondersi in tutti gli altri campi».

Dopo il successo virale online, Dark is Beautiful si sta preparando alla realizzazione di altri video in hindi e nelle lingue locali indiane, che arriveranno assieme a una serie di seminari ed eventi di sensibilizzazione su tutto il territorio.

L’esperimento di Dark is Beautiful, racconta Emmanuel, è contagioso: «Quando abbiamo iniziato la campagna non eravamo a conoscenza di altri gruppi che affrontassero i pregiudizi da pelle. Ma negli ultimi anni abbiamo notato con piacere la nascita di varie iniziative parallele alla nostra. Abbiamo bisogno di più campagne come Dark is Beautiful per poter vedere un giorno un cambiamento».

Mentre gli spot per la pelle bianca continuano ad imperversare nelle reti televisive indiane, gli Stati Uniti d’America hanno appena eletto la prima Miss America di origini indiane: Nina Davuluri, 24 anni, originaria del sud dell’India. Unfair and lovely.