Il noir è la tinta della metropoli: la Los Angeles di Chandler, la New York di McBain. Ma la provincia non è da meno: forse quella tinta scura le si addice anche di più, sia pure mai sfoggiata, dissimulata anzi sotto le spoglie bugiarde del perbenismo ipocrita. Lo sapeva bene Simenon, che proprio in provincia ha ambientato la maggior parte dei suoi bellissimi romanzi senza Maigret. Lo sapeva un grande e sottovalutato maestro come Jim Thompson e lo sa, da noi, Massimo Carlotto.

IL SUO ULTIMO ROMANZO, E verrà un altro inverno (Rizzoli, pp. 240, euro 16.50) è forse il noir più cupo mai firmato da un autore italiano e anche il più anomalo, quasi una consapevole e magistrale destrutturazione di un genere letterario che troppo spesso procede senza guizzi sulle orme già tracciate.
I personaggi del romano sono molti: nessuno può ambire al ruolo di protagonista e quasi nessuno è moralmente meno ignobile, meno intimamente squallido degli altri. Il vero «personaggio principale», qui, è il piccolo e anonimo paese del Nord flagellato da un’epidemia di omicidi insensati, spesso grotteschi, sempre stupidi. Nessuna intelligenza perversa determina la mattanza. Qualcuno uccide per una cupidigia accattona, ma con in ballo cifre risibili. Qualcuno per sfuggire a ricatti da poco. Qualcuno per difendere la reputazione, che in Paese è un bene inestimabile.
Il noir, in provincia, è opposto a quello abituale, proprio della «grande città violenta».

NON È FRUTTO dell’anonimato della metropoli, al contrario di una dimensione asfissiante in cui tutti si conoscono, si spiano, si spalleggiano quando l’omertà lo impone e poi si tradiscono. In questo desolato romanzo è sempre dagli amici e dai complici che bisogna guardarsi, da chi sembra essere più vicino e partecipe. Nelle metropoli del moto perenne è il miraggio dell’ascesa economica o sociale a innescare dinamiche assassine. In provincia è l’assenza di quel movimento: è l’immobilità. Nella Valle in cui è ambientato il romanzo «i maggiorenti» sono sempre gli stessi, di generazione in generazione.
Nessuno minaccia o discute la loro sovranità. I sottomessi sono rassegnati: tutt’al più sperano di arrampicarsi ricorrendo al sesso e a magari a un «bel matrimonio». È un ordine asfittico, immutabile, che solo terremoti imprevisti come le devastanti delocalizzazioni, possono turbare.
Senza la delocalizzazione e il conseguente licenziamento due operai qualsiasi come i cugini Vardanega, poche ambizioni, nessuna intelligenza, non sarebbero mai finiti a fare lavori per i quali non sono proprio tagliati, come minacciare il «forestiero»Bruno Manera. È un imprenditore di successo trasferitosi in paese per far contenta la molto più giovane e infedele moglie Federica, pargola della famiglia che «maggiorente» del luogo, una di quelle che imperano da sempre sulla Valle. I due incapaci banditi per caso combinano un disastro. Gli scappa un colpo dalla rivoltella prestata dall’unico malavitoso locale, a sua volta una mezza tacca. Manera viene ferito e si innesca così la spirale tragica che produrrà cadaveri uno via l’altro.

TRA TUTTI I PERSONAGGI solo Manera vola più alto degli altri. È l’unico a non farsi guidare da interessi non solo personali ed egoistici ma anche di bassa lega: da ambizioni misere, desideri tristi, preoccupazioni da sacrestia. Nona caso è il solo a non venire dalla provincia, lo «straniero» circondato da diffidenza e sospetto. Tra i tanti personaggi le donne se la cavano un po’ meglio. Sono più astute e decise ma non migliori. Difendono il loro status quo, i privilegi per le maggiorenti, la famiglia per le più povere, la rispettabilità per tutte.
Massimo Carlotto si muove nel noir come un maestro e adopera la sua perizia per smantellare sia il genere letterario che il mito dell’operosa provincia del settentrione. Usa la provincia per rovesciare tutti i canoni del noir. Ne smonta il romanticismo per rivelare invece la grettezza delle trame, la casualità dei crimini, la meschineria dei sogni proibiti. Allo stesso tempo Carlotto adopra gli archetipi capovolti del noir per sfatare il mito della provincia «dinamica» ed europea e inchiodarla invece alla sua realtà arcaica, asfissiante, ferocemente classista.