Attrice che ha attraversato il cinema francese dagli anni Novanta, riferimento per molti autori e autrici di più generazioni – Laurence Ferreira Barbosa, Eric Rochant, Pascale Bonitzer, e ancora Valerie Lemercier, Jacques Audiard, Bruno Podalydes ma anche Claude Miller, Laetitia Masson, Nicole Garcia, Steve Bozon fino a Stephan Brizé per il quale è interprete anche nell’ultimo film, Un autre monde, in concorso alla Mostra del cinema di Venezia – Sandrine Kiberlain nella cifra di una diversità quasi eclettica con cui ha costruito la propria traiettoria artistica ha ora debuttato alla regia: il suo esordio, Une jeune fille qui va bien, presentato come evento speciale alla Semaine de la Critique dello scorso festival di Cannes, è il primo titolo nel concorso del Torino film festival che si è aperto ieri. La decisione – ha spiegato Kiberlain – nasce dal desiderio di raccontare questa storia con le sue parole dopo che la lunga carriera di interprete l’ha portata a dire sempre le parole altrui.

UNA SCOMMESSA dunque che si concentra su una figura femminile e su un periodo storico in Francia ancora pieno di opacità come quello di Vicky e dell’occupazione tedesca quando i francesi permisero uno dei più grandi rastrellamenti in Europa di cittadini francesi ebrei. Ebrea è anche la giovane protagonista di Kiberlain, Irene – a cui da vita Rebecca Marder – che in quel 1942 mentre intorno a lei e alla sua famiglia, la nonna Marceline (che è Françoise Widhoff, montatrice magnifica di Alain Cavalier), il padre (André Marcon), il fratello Igor (Anthony Bajon), lo spazio pubblico si restringe marchiandone – letteralmente con la dicitura«ebreo» sui documenti e la stella gialla sui vestiti – le esistenze, rivendica il diritto a vivere l’età della giovinezza con le sue passioni, l’amore, il desiderio, i sogni di un futuro che sappiamo assai probabilmente non ci sarà. Nel caso di Irene questo futuro è il teatro: rifugio, ossessione, assoluto che condivide con un gruppo di amici e di amiche insieme ai quali prova Marivaux per l’ammissione al Conservatorio di arte drammatica. La realtà per la ragazza si «dissolve» nella messinscena, nel gesto della recitazione: una caduta che simula un mancamento – e fa spaventare a morte il serissimo fratello; un sorriso, una lacrima: sarà vero? Sarà una battuta? Chissà. E su questo «bordo» la regista pone anche la propria narrazione in cui mette da parte la «ricostruzione» storica per cercare invece l’universalità di una fragile incertezza – «Ho pensato ai ragazzi del Bataclan, che sono usciti per andare a un concerto senza sapere che non sarebbero mai tornati a casa» ha dichiarato Kiberlain in una intervista di questi giorni a «Variety». Il che non significa che la storia non entra nelle sue immagini: sono però soprattutto frammenti, che rimandano alle complicità dei francesi nelle leggi razziali – gli sguardi di disprezzo della panettiera che rifiuta di servire la nonna di Irene o il sorriso un po’ sprezzante della bionda e bella amica del fratello, il suo grande amore, che sparisce per«respirare» mentre lui si dispera dicendosi che è perché è ebreo. E ancora l’ansia del padre quando la figlia rientra tardi, non perché teme che faccia chissà cosa ma ha paura che la portino via. E la sua tristezza dopo che ha perduto il lavoro e passa il tempo a fumare in cortile sempre più solo.

È INVECE nell’universo della protagonista che Kiberlain rimane sempre, in quella sua ostinazione che non vuole o arrendersi, quasi che l’arte della scena possa proteggerla e permetterle di respirare l’esistenza che le viene sottratta, di ridere, di correre, di lanciarsi nelle emozioni. Quel «fuori» rimane benpresente nella tensione che si sente crescere coi giorni, scorre tra le parole del testo che le ragazze provano, l’amica vestendo i panni maschili dopo che qualcuno è scomparso, e dove prendono corpo gli interrogativi sull’esistenza e forse quell’angoscia a cui non vogliono cedere. Macontro di esso la giovanissima donna inventa costantemente un luogo emotivo che si fa forma di resistenza come i suoi sorrisi, la sua allegria, la felicità di «ragazza che sta bene» – più o meno la traduzione del titolo – pure se sappiamo che non è così. Resistere oltre l’impossibile. Danzare con quella stella gialla, che le attira occhiate malevoli. Kiberlain cerca insieme a lei traiettorie che sorprendono il racconto più codificato per dare voce a un’esistenza tra le sue molte sfumature. Lo fa con amore, lasciandoci catturare dalla forza senza super poteri della sua eroina, determinata fino all’illusione.