«Inclusion/Exclusion» è il titolo della mostra organizzata dalla Comunità di Sant’Egidio al Vittoriano di Roma: dipinti, installazioni, fotografie, documenti, video e testi di 52 artisti coordinati da César Mereghetti e formatisi nei laboratori che la benemerita organizzazione ha sparsi sul territorio (fino al 31 gennaio, ingresso gratuito). 52 persone con disabilità «liberate e sottratte ai processi di esclusione e rifiuto» che raffigurano crudeltà e antagonismi odierni: isolamento/integrazione, indifferenza/solidarietà, respingimento/accoglienza, paura/dialogo. Temi che toccano e interrogano tutti. Perché intorno a noi e nei nostri sentimenti grandinano «guerre, segregazioni, migrazioni, periferie urbane ed esistenziali» e afflati pacifici di «impegno umanitario, difesa dei diritti, buone pratiche».
Incontrare ciascuno di questi 52 personaggi -o uno dei cinquecento frequentatori dei laboratori nella sola città di Roma, sovente allocati nelle aree più desolate e difficili- sorprende gli occhi e volge lo spirito alla riflessione. Chi è stato tacciato di insignificanza e nullità raggiunge vertici espressivi che i cervelli pigri escludono a priori, mentre chiede in silenzio a pasciuti e normodotati: «e tu, da che parte stai?»
La squisita cortesia di Cristina Cannelli -militante comunitaria- illustra il percorso corroborandolo di cifre e fatti, pennellandolo di soddisfazione per la Targa di riconoscimento che il Presidente della Repubblica ha dato alla mostra, consacrando il Quirinale come Casa di tutti gli italiani, compreso chi ha la faccia strana e talvolta la testa stralunata o le articolazioni anarchiche. Perciò un pannello gigante ricorda l’uguaglianza di tutti i cittadini sancito nell’articolo 3 della Costituzione.
IL MURO, I MURI
«Le parole che troverai qui -dice Cristina- sono raccolte e trascritte direttamente da persone con disabilità mentale, magari digitate al computer da chi non parla per difficoltà verbale o neurologica, in modo da aprire per chiunque un varco alla comunicazione: abbattere il muro della incomunicabilità con uomini e donne che un pensiero ce l’hanno ma non possono esprimerlo nei canoni consueti, e sono quindi esclusi e malgiudicati». Per capire subito in che mondo viviamo, nel primo grande spazio espositivo un laboratorio ha creato 3.139 barchette di carta bianca (rossa per i bimbi) poste sul pavimento dal quale si erge un enorme schermo d’acqua dove scorrono i nomi di chi in mare ha trovato la morte cercando la vita: sono gli annegati nel solo 2017 tra coloro che tentavano di raggiungere il presunto Eldorado europeo da Africa e Asia. E se è vero che si muore definitivamente quando nessuno ricorda più il nome del defunto, quello schermo omaggia eternità ai morti umani causati da vivi umani diversamente sciagurati. Viventi alterati che ignorano la realtà o la respingono, al comando ipnotico di un Potere sbarellato che plasma le percezioni e colonizza le coscienze rendendole primitive con la menzogna e la ferocia. «Soffiare sulla paura fa diventar cattivi» si legge alla mostra, come hanno soffiato sui migranti italiani all’Estero fino a pochi decenni fa, sbeffeggiandoli, umiliandoli, maltrattandoli con paghe da fame, prigioni, omicidi. Dimenticarlo produce mostri: e la memoria storica è altro pilastro portante in questa mostra. Dove a scomparire davvero è la distinzione manichea noi e gli altri: Mereghetti propone un gioco di specchi e luci che trasforma l’io (me) in noi (we), ridando dignità al pronome plurale oggi schiacciato da un esasperato e nauseante narcisismo individualistico.
FILOMENA DAI LUNGHI CAPELLI
Qualificante nella mostra l’attenzione per «la memoria della guerra, della deportazione di 1.024 ebrei romani ad Auschwitz il 16 ottobre 1943, dell’esclusione massima costituita dalla segregazione nei manicomi o nei cronicari, di chi fugge da conflitti carestie cambiamenti climatici fame miseria…» Pino, Antonio, Alvaro e Sandra hanno pensato ai deportati componendo una finestra sbarrata e al posto dei vetri 1.008 candele bianche, 15 rosse e una blu per i 15 uomini e l’unica donna tornati dai campi; candele di recupero per un’espressione d’Arte Povera che varrebbe cifre da capogiro se firmata da Fontana o Kounellis.
Stefano e Simone hanno colorato ispirandosi a Andy Warhol la vecchia Filomena orgogliosa dei suoi lunghi capelli, rinchiusa dai parenti in istituto, dove le tranciarono le chiome, negandole l’identità, provocandone la morte in pochi giorni. Sonia, Luigi, Marco e Donatella hanno preso acrilici e gommapiuma per deformare l’Africa come a stringerla in pugno e significare lo sfruttamento altrui delle sue ricchezze. Il laboratorio d’arte Vigne Nuove su un pannello traccia un irraggiungibile bicchiere d’acqua e la scritta a sangue «Ho sete» nell’attesa estenuante di qualcuno che aiuti a placarla. L’ottantenne Giovanni spiega su un monitor la sua voglia irriducibile di dipingere che lo portò bambino alla derisione in famiglia e trent’anni di manicomio. Roberto ha sovrapposto e chiuso consunti bancali in legno per esprimere la sua idea di Gabbia senza luce, come i luoghi di clausura dove cessi di essere un nome, una persona, dove col tempo non sei presente neppure a te stesso, e cessi di esistere.
ATTRAZIONE
E AGGREGAZIONE
La denuncia poetica della condizione svantaggiata non è l’unico versante che articola le problematicità odierne. Gli artisti esprimono altresì le alternative all’odio e all’abbandono: Sant’Egidio ha aperto un Tavolo ecumenico con Evangelici e Valdesi per corridoi umanitari nelle aree travagliate del Pianeta al fine di evitare migrazioni pericolose e promuovere accoglienza concordata, iter che Roberto ritrae su una tela lunga sette metri. E Fatou, Pacem, Anamaria, Cacilda, Seny, Helen, Maureen stemperano su un’altra tela imponente il cammino verso l’autonomia originato dai Centri Dream della Comunità in numerosi Paesi ove le donne sono protagoniste finalmente visibili e fiere.
«Nei laboratori -chiarisce Cristina- si comunica molto, a prescindere dalle capacità cognitive stigmatizzate nei certificati medici. Si discute di un tema e ci si documenta. Così i laboratori diventano luoghi di attrazione e aggregazione anche per chi pensa di essere normale». Una pratica comunista dico alla Cannelli, che ride e prosegue: «entrare in relazione è pregiudiziale per ognuno, il dialogo apre e migliora, costruiamo una rete di sostegno ai fragili per crescere noi stessi». Rete concreta, quanto mai preziosa: una signora con figlio disabile e dimora popolare si ricoverò in ospedale, preoccupata per le sorti della casa minacciata dalla criminalità diffusa che occupa e gestisce abusivamente gli alloggi di proprietà pubblica, anche cacciando i legittimi assegnatari; i comunitari a turno tennero compagnia al ragazzo, dissuadendo con la presenza costante i farabutti, tranquillizzando la madre, assicurando il suo ritorno al focolare…

MISERICORDIA

I religiosi sinceri e coerenti («altrimenti meglio essere atei» tuona papa Francesco), a cui la sorte ha donato sapienza, hanno uno strumento in più rispetto a chi è senza visione umanistica o l’ha smarrita nell’epoca della disgregazione antagonista, dell’autoreferenzialità egoistica, dei voltagabbana a cuor leggero: una legge scritta a cui attenersi nel proprio operato, una legge morale che guida il percorso esistenziale. «La misericordia è il nostro metro di giudizio» sostiene il presidente della Cei Gualtiero Bassetti, uomo da sempre vicino ai deboli, mentre riconosce la «laicità positiva che ha ispirato la nostra Costituzione e tanto ha aiutato la democrazia italiana», quella laicità che oggi lascia quasi in solitudine i credenti operosi nella lotta a ingiustizie e iniquità. Il cardinale elenca le 14 opere di misericordia corporale e spirituale: «Dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti. Consigliare i dubbiosi, insegnare agli ignoranti, ammonire i peccatori, consolare gli afflitti, perdonare le offese, sopportare pazientemente le persone moleste, pregare Dio per i vivi e per i morti».
Anni fa Rossana Rossanda scrisse che la misericordia, quel sentimento di compassione accorata che spinge a soccorrere, è parola che ognuno dovrebbe recuperare, non è esclusiva d’un’area di pensiero. Poiché le valenze universali non hanno padroni.