Tutti lo chiamavano il bunker, il seminterrato che per anni ha fatto da studio allo scrittore e poeta William Burroughs nel Lower East Side di Manhattan. Al suo interno, il regista Aaron Brookner ha trovato il tesoro di cui andava in cerca da anni: le pellicole scomparse di un film girato da suo zio Howard Brookner tra il 1978 e il 1983: Burroughs: The Movie, storia biografica sull’autore del Pasto nudo e testamento di un’epoca in cui a New York i padri della «beat generation» – «una definizione che loro stessi odiavano e che quindi è doveroso mettere tra virgolette», specifica Aaron Brookner – lasciavano in eredità la loro esperienza artistica a una nuova generazione. «Quella di Jim Jarmusch, Sara Driver, Lori Anderson, Patti Smith», dice Brookner, e anche di suo zio Howard, su cui il regista del 1981 ha girato il film in concorso al Biografilm festival di Bologna: Uncle Howard appunto.

«Anni fa passeggiavo per il West Village, il quartiere in cui sono cresciuto – racconta Aaron Brookner – e mi ha colpito vedere i lavori in corso per trasformare lo storico ospedale Saint Vincent in un condominio di lusso». Al Saint Vincent si curavano negli anni Ottanta i malati di Aids, e tra loro anche Howard Brookner, ucciso dalla malattia nel 1989 a soli 34 anni. «La fine del Saint Vincent mi è parso un chiaro segnale visivo del fatto che negli Stati Uniti la storia di chiunque può venire sotterrata se non si fa qualcosa per conservarla e perpetrarla».
È così che qualche tempo dopo, a casa di sua nonna a Miami, Aaron Brookner decide di girare un film su suo zio: «dentro il guardaroba ho trovato delle scatole contenenti le cose di Howard, e ho cominciato a chiedermi cosa ne sarebbe stato della sua memoria. Ma come si fa un film su una persona che non c’è, il cui lavoro è in gran parte andato perduto?».

Al documentario partecipa con la sua testimonianza il regista Jim Jarmusch, fonico di Burroughs: The Movie che Aaron Brookner aveva scoperto e amato durante gli anni passati a studiare cinema: «ho parlato a mio padre di quanto mi avevano colpito i suoi film, e lui mi ha svelato che Jim era un grande amico di Howard», ricorda Brookner, che ha poi contattato il regista e lo ha incontrato sul set di Coffee and Cigarettes. «È stato lui il primo a parlarmi dell’esistenza di molte sequenze inedite del film su Burroughs, che Howard gli aveva mostrato in corso d’opera e che poi erano scomparse». Per anni Brookner e Jarmusch restano in contatto, cercando di capire come trovare quelle pellicole perdute. La loro scoperta proprio nel Bunker di William Burroughs al 222 di Bowery Street, oggi di proprietà del poeta John Giorno, è l’evento che apre il documentario insieme alle iniziali resistenze dello stesso Giorno a far entrare nel suo santuario il nipote di Howard.

«Uncle Howard è un film sul viaggio che ho compiuto alla scoperta di mio zio, su cosa significhi trovare e ‘far parlare’ delle vecchie pellicole, e anche sulle persone che si incontrano lungo il percorso», dice Brookner. Ma è anche e soprattutto la testimonianza di un’epoca e di un incontro intergenerazionale, come già era stato il film su William Burroughs, di cui Uncle Howard riproduce e ripercorre il processo di scoperta della vita di un artista e lo sguardo su una New York che non esiste più. «Mi interessava molto lo scambio tra diverse ondate di artisti: io sono stato influenzato dalla generazione di Howard e Jim Jarmusch come loro lo erano stati da quella di Borroughs, Kerouac, Ginsberg», dice Brookner. «Inoltre volevo mostrare una prospettiva inedita sulla New York di fine anni Settanta, non da parte di qualcuno che l’ha vissuta e ne parla con nostalgia».

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La grande mela, in quegli anni, «era una città molto economica, in cui gli artisti potevano permettersi di vivere. Era crocevia di generazioni di intellettuali, il luogo in cui il cinema si mischiava alla pittura, la letteratura, la musica: Burroughs faceva i suoi reading nei club punk rock». Quella di suo zio Howard, aggiunge Brookner, è stata anche la prima generazione a dichiarare apertamente la propria omosessualità, «ispirata da uomini come Burroughs e Ginsberg che avevano fatto outing negli anni Cinquanta attraverso le loro opere».

Un’ «incredibile fioritura intellettuale» che andava però inesorabilmente incontro alla sua fine: «tutto è cominciato con l’Aids», osserva Brookner. Poi arrivarono gli anni di Reagan, del boom del mercato immobiliare. E volgendo lo sguardo a una decade dopo, alla fine degli anni Ottanta, si capisce che quel mondo era ormai stato «decimato».
«Quella di Howard è una storia incompleta», dice al regista l’unico erede vivente di Burroughs. Una storia che il documentario di Aaron Brookner riporta alla superficie partendo da un seminterrato di New York e da un guardaroba di Miami. Incompleta come quella dell’universo underground newyorchese che i palazzi di lusso hanno cercato, senza riuscirci, di sotterrare.