Nei primi anni Ottanta un’imprevista ondata di band inglesi e americane, nate sull’onda energetica del punk, abbracciarono, con ardore e totale devozione, quei suoni tipicamente anni Sessanta che nell’ottica di quei giorni sembravano desueti e retaggio di un passato lontano. I concetti di vintage e revival erano ancora lungi dall’arrivare, anche perché la scena «rock» era ancora parecchio giovane e guardare al passato significava voltarsi indietro di pochi anni. In realtà la narrazione che il punk avesse cancellato con un colpo di spugna i «vecchi» gruppi (spesso i componenti avevano superato di poco i 30 anni) era una sorta di formula giornalistica che non aveva del tutto corrispondenza con la realtà. Le band di rock classico, fusion e prog passarono mediaticamente in secondo piano (per un certo periodo) ma non smisero di fare dischi, venderli, continuare a portare migliaia di persone ai loro concerti. La stessa scena punk aveva attinto in abbondanza alla tradizione Sixties, recando con sé suoni, estetica, attitudine dell’epoca, con qualche trasformazione e rinfrescata ma poco più. Nei repertori di band come Sex Pistols, Clash, Jam, Patti Smith, Ramones, per citarne alcuni, non mancavano cover di classici o oscuri brani degli anni Sessanta e soprattutto riferimenti espliciti a livello compositivo e melodico, evidenziando un filo conduttore molto stretto con quanto accaduto poco più di dieci anni prima.

UNA RACCOLTA
E fu così che la lezione di band come Jam, Buzzcocks, Squeeze, XTC e quelle uscite dal mod revival aprirono le strade a una nuova generazione di innamorati e fanatici degli anni Sessanta che si abbeverò nelle acque cristalline (o paludose che dir si voglia) della compilation Nuggets, curata da Lenny Kaye, poi nel Patti Smith Group, che nel 1972 raccolse una serie di testimonianze della scena garage punk americana tra il 1965 e il 1968. In Inghilterra una band come i Prisoners suonava il più possibile uguale agli Small Faces mentre i Barracudas mischiavano power pop e garage. Ma fu negli States che lo sguardo maniacale al garage punk delle origini prese piede nei primi anni Ottanta. A New York esplodono band come i Fuzztones di Rudi Protrudi, costantemente sulle tracce dei Sonics, i Vipers, i super revivalisti Chesterfield Kings, impegnati ad assomigliare nella maniera più minuziosa possibile ai Rolling Stones del 1965, i ruvidi Outta Place. Anche se a iniziare le danze erano stati i Fleshtones già nel 1977, irresistibile party band con un esplosivo mix di beat, rhythm and blues, power pop che convince sia su disco che soprattutto dal vivo con concerti travolgenti e infiniti. Da altre parti dell’America arrivano i duri e veloci Miracle Workers, dall’Oregon, i Graveddiger Five e i Tell-Tale Hearts, fedeli al rhythm and blues bianco inglese di band come Yardbirds e Pretty Things, le Pandoras più pop oriented e una serie di altri nomi che guardano con più convinzione a sonorità psichedeliche e folk rock. Saranno più o meno inconsapevoli ispiratori del Paisley Underground di Dream Syndicate, Rain Parade, True West, Green on Red che sceglieranno strade più complesse e contaminate, meno revivaliste ma altrettanto vicine allo spirito dei Sessanta. Tra gli «absolute beginners» ce ne fu uno che fece gara a sé. E che purtroppo piangiamo per la prematura scomparsa, alla vigilia di un insperato ritorno in scena con un nuovo album. Shelley Ganz, nato verso la fine degli anni Cinquanta, attivo in California, è un purista all’ennesima potenza, considera la musica finita più o meno tra il 1965 e il 1966, è immerso nei dischi di Music Machine, Sonics, Seeds, Count Five, protagonisti minori del rock più ruvido degli States, che dopo aver scoperto i Beatles all’Ed Sullivan Show nel 1964, hanno imbracciato chitarre e batterie, si sono fatti crescere i capelli e dopo aver imparato i brani dei Fab Four hanno inasprito la loro lezione, distorcendo i suoni, accelerando i brani, urlando i testi delle canzoni, invece di armonizzarli in accettabili melodie.
«Per lui la musica si era cristallizzata attorno alla metà degli anni Sessanta. Da allora, poco era successo di particolarmente rilevante: dalla cultura pop fatta di b-movie e fumetti, al look, insomma a tutto l’immaginario underground con il quale era cresciuto» (Massimo Del Pozzo, Misty Lane Records).

IL COLLEGIO
Alla fine degli anni Settanta Shelley è in collegio, periodo che ricorda con molto sconforto: «Il collegio era un posto in cui di certo non volevo essere, e tutto ciò che avevo per un minimo di sollievo era una stazione radio di New York. È così che ho imparato a conoscere gli anni Sessanta e la musica garage, in particolare. Quella radiolina l’avevo incollata incessantemente all’orecchio, altrimenti mi sarei buttato dalla finestra! Quando ti trovi in questo ambiente terribile e non c’è niente da fare, a parte evitare il bullismo del personale o dei compagni di classe più grandi, tutto quello che avevi era questa radio. E suonavano incessantemente il rock’n’roll più primitivo! Senza sosta, 24 ore su 24. Sono diventato come Linus e questa era la mia coperta di sicurezza! Era un conforto perfetto». Shelley impara a suonare la chitarra, forma qualche band agli inizi degli anni Settanta, tra cui i Popes, ma senza riuscire a combinare granché. Fino a quando agli inizi degli anni Ottanta, affiancato da Sid Griffin, futuro leader dei Long Ryders non dà vita agli Unclaimed, una delle primissime band dedite al 100% al recupero delle sonorità garage di metà anni Sessanta. «Proprio come i Rolling Stones, che quando iniziarono erano una cover band blues, si potrebbe dire che gli Unclaimed erano una cover band punk degli anni Sessanta. Ho cercato e trovato le canzoni più oscure di quell’epoca da suonare». È del 1980 l’esordio discografico in un momento in cui nessuno suona quelle cose con un ep omonimo di quattro brani. È puro e semplice garage rock, proposto in maniera semplice e diretta, con qualche approssimazione ma così genuino e sincero da essere irresistibile. Dopo una serie di cambiamenti della formazione torna nel 1983 con un altro ep di sei brani The Primordial Ooze Flavored Unclaimed, molto più a fuoco, suonato in modo impeccabile, con canzoni di eccellente livello, come sempre rigorosi omaggi al sound prediletto. L’estetica ricalca alla perfezione quella di gruppi come i Music Machine di Sean Bonniwell, con capelli lunghi a caschetto e look totalmente in nero, stivaletti a punta. Purtroppo Shelley Ganz si perde tra suoi fantasmi e si ritira sostanzialmente dal mondo della musica, dopo litigi, l’abbandono della band in mezzo a un tour europeo, un album inciso alla fine degli anni Ottanta e uscito solo nel 1991 con il nome di Attila & the Huns (poi ristampato come Unclaimed dalla romana Misty Lane nel 2022 con l’approvazione dello stesso Ganz). «Era anche un’anima sensibile e schiva rintanatasi nella propria caverna per parecchio tempo» (Del Pozzo). Ci vorranno anni per farlo tornare in scena, con una reunion nel 2013, una serie di concerti nella sua Los Angeles e la decisione di ripartire con una nuova formazione dello storico marchio con il chitarrista Patrick Cleary a dare un’importante mano artistica e umana. Creature of the Maui Loon è il nuovo disco, purtroppo postumo, a cui ancora una volta provvede la Misty Lane. Un disco che rimane fedele al più classico dei suoni Sixties, pur svoltando verso una dimensione folk psichedelica, con echi Byrds e accenni surf, più rilassato e meno selvaggio ma altrettanto valido e di altissima qualità. Un personaggio che rimarrà per sempre nei cuori degli appassionati di un ambito così ristretto, fatto unicamente di passione e amore per la musica e un immaginario tanto lontano quanto così sincero e urgente.