Fra gli autori inglesi amati in Italia c’è William Somerset Maugham, conosciuto fin dagli anni trenta e cresciuto vertiginosamente dal dopoguerra. Il velo dipinto, nella traduzione di Vittorini (1940), lo regalammo alla nostra professoressa di italiano per festeggiare la fine del corso – e della sua dittatura. Lo avevo scelto io, capoclasse da decenni, lettrice della terza pagina del Messaggero, ma non lo avevo letto! Lei era quanto di più somigliante a Dante si potesse trovare in una donna sarda. Naso gibboso, capelli rossi corti, occhi strabici divergenti, dizione forte e scandita, pesanti gioielli di rubini che sfilava e rinfilava di continuo. Avrebbe preferito una classe di maschi, ci diceva, capaci di comprendere al volo le sue belle lezioni di storia. Le consegnai tremando il pacchetto che non sapevo cosa in realtà nascondesse. Finalmente l’ho letto dopo tanti anni, ma le straordinarie immagini e il finale corretto del film di John Curran dallo stesso titolo (2006) hanno interferito pericolosamente con la lettura.
Per indovinare la temperie abituale di Maugham meglio puntare a una normalità avventurosa, una mediocrità eccezionale, uno scrittore come tanti ma vittorioso come pochi al termine di una lunga straordinaria corsa. Meglio cercarlo in questa pseudo biografia che ha in copertina una sua foto, scattata a Nizza da Stan Meagher (1963), in cui regge un grosso binocolo a una certa distanza dall’occhio: Taccuino di uno scrittore, ottima traduzione di Gianni Pannofino, Adelphi «Biblioteca» (pp. 412, e 24,00). Se dobbiamo credergli sarebbe uno scrittore modesto nel senso più generoso del termine. «Le mie doti innate non sono particolarmente degne di nota, ma ho una certa forza di carattere … Non sono privo di buonsenso. La maggior parte delle persone non riesce a vedere nulla; io invece vedo con estrema chiarezza quello che mi sta sotto il naso; i più grandi scrittori vedono attraverso i muri. La mia vista non è così penetrante … Vorrei che la gente mi prendesse soltanto per quello che sono, e io, d’altro canto, non vedo il bisogno di ammettere le pretese altrui».
Benché così fermamente inglese, nacque e morì in terra francese (1874-1965) dopo aver assistito a due guerre mondiali e viaggiato per mezzo mondo. Il primo taccuino, che risale al 1892 – aveva allora diciotto anni –, abbonda di aforismi sbrigativi in cui si districa ingenuamente dalla sua educazione upper class, maturata a Eton, Heidelberg, nella scuola di medicina a Londra. Tra le prime esperienze di vita ci fu l’inaspettato successo del primo romanzo, Liza of Lambeth, il silenzio totale sul sesso, l’odio intransigente per la donna in quanto partecipe della vita sociale, moglie, amica. «Non c’è uomo che in cuor suo sia tanto cinico quanto una donna di buona famiglia». «I tre doveri della donna. Il primo è di essere graziosa, il secondo è di vestirsi bene, il terzo è di non sollevare mai obiezioni». «A volte l’amore è così violento che il desiderio smette di essere un piacere e diventa dolore, al punto che gli uomini uccidono la donna amata per sbarazzarsi del desiderio» – quella sindrome luttuosa che Anaïs Nin ha chiamato la «vergogna» che l’uomo getta sulla sua donna. «A letto. Non c’è donna che valga più di una nota da cinque, a meno che non siate innamorati di lei. In questo caso varrà tutto quello che vi costerà». Ma anche lui fece amare esperienze con un suo amico: «Ho comprato le tue labbra imbronciate a peso d’oro».
Invece sulle bellezze della natura, «la madre nostra Terra gravida di vita silenziosa», nubi, vento, neve, pioggia, foschia, tenera vegetazione, cieli splendenti: il giovane Maugham si commuove con sensibilità ancora vittoriana. Ruskin, Pater, Hopkins e un esercito di acquarellisti avevano educato generazioni di pittori verbali. «La vegetazione era così pura da purificare anche la mia mente, e io mi sentivo come un bambino … Londra. Al tramonto le nuvole a occidente parevano la grande ala di un arcangelo in volo nel vuoto per compiere una vendetta, e l’ombra fiammeggiante proiettava sulla città una luce livida». Lo spirito della natura penetra la storia. «Il cielo dopo la tempesta, spazzato dal vento ululante, aveva la terribile disumanità della giustizia».
I secoli passati, occultati dalla foschia, gravano sul Novecento: omofilia/muscolarità, estetismo/verbosità… Nel taccuino del 1904 due pagine sono dedicate a L’Indifférent di Watteau e si vorrebbe citarle per intero. «Era un volto corrotto; se mai la bellezza può essere corrotta; era un volto crudele, se mai l’indifferenza può essere crudele». Saltiamo il drammatico 1914, e ci troviamo a Capri seduti in un’osteria quando il vecchio Norman (Douglas) annuncia che un amico sta per spararsi. Non ha intenzione di impedirglielo. «Ha ordinato un’altra bottiglia di vino e si è seduto in attesa di sentire il colpo».
Nel 1922 pagine rivelatrici sono dedicate a Charlie Chaplin: «Il suo realismo con tutte le sue implicazioni, è in realtà tragico perché suggerisce una familiarità eccessiva con la povertà e lo squallore … Ho idea che soffra di nostalgia per i bassifondi». In paesi esotici, indifferente al contesto umano, è il suo estetismo che si risveglia e si nutre di colori e forme impreviste: le foglie di banano come belle donne vestite di stracci, la frivola eleganza delle frasche di palma, le palme di cocco come anziane ballerine in fila. Si associa ai nativi per imprese pericolose su imbarcazioni traballanti, si mette alla prova in quei paesaggi di sogno. A Savarak, nel Borneo, cielo, mare, mangrovie, il merletto delle casuarine, la giungla sempre in misterioso mutamento dall’alba al tramonto, il bazar, le coppie di coniugi bianchi, abbarbicati qui a riscaldarsi sotto l’ ultimo tepore dell’impero. «Singapore: un sogno oppiaceo». Nel 1938 in India è vittima degli incantesimi che colpiscono il turista particolarmente curioso, ma indifeso di fronte al Taj Mahal, Madurai, i ghat di Benares, lo jogy, l’infinito … Kipling non lo aveva messo in guardia.
Era andata meglio in Russia dove era stato mandato nel 1917 in missione segreta, anche se come spia non fu un successo. Le tante pagine dedicate ai grandi scrittori russi, all’anima russa, alle donne russe scritte in quell’occasione – raccomanda – vanno lette nella loro fragranza, e per noi giustificano l’incarico. Dopo la lunga immersione russa, all’approdo in una galleria d’arte lo distraggono i colori di una natura morta di Gauguin: verdi cupi, viola come carne putrefatta, rossi acuti come bacche di agrifoglio. «Chi può descrivere la fantasia tormentata che ha dato vita a questi frutti?».
Ma non esistono vuoti in questi taccuini. Un fitto tessuto di personaggi appena abbozzati fa da sfondo agli incontri eccezionali. Sono scorci appena tracciati, rifiutati ma non totalmente, rimangono a disposizione di un loro possibile sviluppo romanzesco. Lo scrittore è stato sempre al lavoro, accumulando una sorta di pre-finzione narrativa: larve di personaggi, rifiuti dell’immaginazione, intrisi nella materia indifferenziata del reale, sospesi in un momento storico tra Oriente e Occidente. Pantaloni bianchi, cravatta nera, incarnato roseo, occhi azzurri, capelli radi, moglie al seguito, spesso indigena. Forse cosi erano le schede della polizia: la spia, il missionario, il mercante, il governatore, il piantatore, il minatore, il ministro, l’ingegnere, la folla nell’arena a Saragozza … «L’esercizio dell’immaginazione sembra allo scrittore l’attività umana più sublime. E invece immaginare equivale a fallire, perché è il riconoscimento della sconfitta nel confronto con la realtà». L’onestà di Maugham è imbattibile. In una Londra poco accogliente in quegli anni ancora di dopoguerra, fummo guidate dalla nostra professoressa per una breve visita. Promossa ad aiutante tuttofare, l’accompagnai nell’acquisto di spille di princisbecco, d’epoca vittoriana.