Come d’aria di Ada D’Adamo, edito da Elliot (pp.144, euro 15), è una testimonianza a partire da esperienze autobiografiche, come dichiara apertamente l’autrice nel prologo: sono veri i nomi che usa per sé stessa, voce narrante, e per sua figlia Daria, è il racconto della verità di una madre la cui figlia è gravemente disabile: Daria è nata affetta da oloprosencefalia, non diagnosticata in fase di sviluppo del feto, quando si può ricorrere ad aborto terapeutico. Ciò comporta che non vede, non parla, non cammina. Non lo ha mai fatto e non lo farà mai.

NEL TESTO TROVIAMO pagine sulla condizione esistenziale dei genitori di bambini e bambine che non possono muoversi, né vedere: «avere un figlio disabile significa essere soli. Irrimediabilmente, definitivamente soli». Quella di cui scrive D’Adamo, con semplicità e precisione, attraverso una lingua schietta e meditata, distillata e al contempo coinvolgente è una solitudine assoluta. In primo luogo perché deriva da un isolamento radicale: non importa più ciò che accade intorno, perché è stato necessario raggiungere vette talmente elevate di sopportazione che il cuore, come scrive lei stessa, è diventato «di pietra».
È una solitudine quotidiana, poi, perché le persone intorno si allontanano, per paura, imbarazzo, meschinità e, infine, è una solitudine istituzionale: «l’Italia ha prodotto una legislazione virtuosa in fatto di inclusione scolastica, ma tra la legge e la sua effettiva applicazione si aprono trincee dietro le quali un esercito di madri bellicose combatte una battaglia quotidiana».
Come d’aria, però, non è solo la testimonianza, ben scritta e ragionata, della madre di una figlia gravemente malata, è un testo sulla condizione esistenziale della disabilità. I disabilities studies propongono da anni ormai una riflessione sulla porosità del concetto che, a differenza di quanto si crede, non riguarda solo alcuni emarginati, quelli che D’Adamo chiama «gli altri». Lei stessa, infatti, è diventata disabile quando si è ammalata di tumore: a lungo non è stata in grado neanche di alzarsi dal divano per andare a salutare Daria che rientrava da scuola accompagnata dalla tata e l’incipit del testo descrive la sua incapacità di ricordare, il suo stato di confusione mentale, generato, secondo la sua dottoressa, dalla menopausa indotta a seguito della diagnosi di cancro.

LA SPINTA NARRATIVA di D’Adamo è quindi sicuramente politica. Sente la necessità di mettere lettori e lettrici di fronte a una problematica sociale gravissima: la rimozione nella contemporaneità occidentale della malattia, della morte, della vulnerabilità, diventata così evidente durante la pandemia e di cui lei fa esperienza ogni giorno da quando Daria è nata, sedici anni fa.
Come d’aria non si esaurisce in questo, però, ma assume tratti di universalità, perché ciò che interessa davvero l’autrice, che era una ballerina, è il corpo. Quando si ammala non riesce ad accettare di non potere più tenere addosso Daria, che i loro corpi non possono più stare appiccicati. Riflette sulla beffa di avere una figlia che non controlla i suoi movimenti quando lei, con la danza, era consapevole del più piccolo moto della più piccola parte della sua mano. D’Adamo scrive, in fondo, dell’insensatezza che fra le tante maggiormente l’ha atterrita: il tradimento del suo corpo. Un tradimento che, come ci avverte anche Susan Sontag, siamo tutte e tutti chiamati a contemplare.
Il libro nasce allora da un atto di splendida resa: «Seguimi, ti prego, sarò gentile con te, non ti chiederò troppo ma tu non abbandonarmi. Gli parlo, come all’essere vivente che è. Grazie, corpo, ti voglio bene ma voglimi bene pure tu». È una riflessione costante sui limiti imposti dalla nostra condizione mortale: la nascita di Daria, l’amore e la sofferenza per lei, le trasformazioni radicali che ha causato, l’arrivo del cancro sono passi di un percorso di dolore e rabbia, che D’Adamo ha vissuto e descrive soprattutto come momenti di progressiva accettazione e di costante presenza. Per tutto questo, nella sua verità, Come d’aria è un inno alla cura.