L’intelligenza dei corpi, il sapere dei corpi, come apprende un corpo, i modi in cui esso stabilisce un equilibrio tra relazione e intimità, quello che ci insegna e che non sappiamo, quello che ci dice e non capiamo, le tracce che la cultura innesta su di esso, il rapporto con lo sguardo dell’altro, come integriamo una percezione, cosa ne facciamo, che valore le diamo. Sono i temi esplodenti nell’importante lavoro di Chiara Bassetti, Corpo, apprendimento e identità. Sé e intersoggettività nella danza (pp. 223, euro 19), pubblicato per i tipi di ombre corte.

LA RICERCA SCENDE nelle profondità dell’esperenziale proprio come fa il palombaro, incarnando la conoscenza nelle sensazioni, indugiando nella creazione di un sapere che non relega il corpo a pertinenza di sua maestà l’intelletto, ma assume la percezione e l’osservazione, il fattuale e la fatica, lo stupore e la paura, il dolore e il piacere come proposizioni di apprendimento, da un lato, e di costruzione identitaria, dall’altro.

HA SCELTO, si è detto, la danza (ed ha danzato, registrato e pensato, optando per un tipo di etnografia che rifiuta di essere metodologia periferica ma sceglie di essere ricerca «incarnata»), ma la riflessione, come sempre accade quando si attraversano temi eterni e costitutivi, si candida a diventare ragionamento universale, nel suo interrogarci sul portato del rimosso che ha investito il corpo nel secolo della biopolitica.

La pandemia ha reso categorica l’impossibilità di espellere i bisogni e i segni del nostro sé organico dall’ordine del discorso liberista: la follia di lavorare 12 ore al giorno, la necessità di respirare aria meno inquinata, quanto fa bene ridere, la mancanza di sonno che mortifica i sensi, l’importanza di una politica del corpo, sono tutte verità che il discorso del capitalista ci ha detto essere desuete, prima che l’evento virale mondiale ne smentisse totalmente il portato.

La danza in cui ci introduce la Bassetti è, allora, non solo ambito di studio, ma uno spazio dove riscopriamo cosa può uno sguardo e cosa significhi scegliere un «habitus» per dirla alla Bordieu, che assieme al teorico della percezione Merleau-Ponty, viene chiamato in causa come si fa con i lari quando si scoprono le proprie stanze: «Le persone che incontriamo quotidianamente portano iscritti sul proprio corpo i segni delle loro appartenenze e mostrano inevitabilmente la loro storia incorporata. Il teatro si limita a condensare questi aspetti».

LE LOTTE, un tempo, servivano a perseguire una felicità degli esseri umani che era anche rivendicazione di un tempo per l’ozio e per il desiderio (tutti fatti che hanno a che fare, e molto, con i sensi). Aver lasciato che il corpo divenisse il terreno sul quale si accaniva l’esasperata ragione produttiva del capitale, facendone fuori le ragioni e i saperi, è l’idiozia che l’intelligenza di questo lavoro rimarca.

La centralità dell’attraversamento organico, nel processo di significazione delle nostre esistenze, è architettura sontuosa qui costruita con cura e rigore, dando conto, con particolare completezza, di quanto la ricerca antropologica, sociologica, sociale e politica ha detto sul nostro essere al mondo e nel mondo. Ma vuole tentare un’ambizione e la dichiara: «La maggior parte di tali studi, tuttavia, non ha fornito indicazioni e descrizioni e analisi approfondite dei processi di socializzazione pratica. I dettagli quotidiani e situati, le minuzie materiali e corporee sono quasi sempre andati a cadere in una scatola nera, che questo volume intende, invece, aprire».

TRA LE COSE EMERSE sono importanti i passaggi con cui si osserva e descrive il processo di apprendimento del danzatore, che è «un nuovo regime di visibilità sul proprio corpo» e la proposta di assumere» una posizione epistemologica che potremmo definire come ontologia del diventare e una metodologia che utilizza come strumento euristico l’esperienza vissuta».

Ricorda a questo proposito le potenti intuizioni di Becker relative alla finitezza di molti dei giudizi che investono anche porzioni rilevanti dell’agire sociale: «interpretazioni sbagliate sono diffuse negli studi su delinquenza e criminalità, sui comportamenti sessuali e in genere su comportamenti che ricadono al di fuori dello stile di vita del ricercatore accademico tradizionale». Posture che non limitano i propri danni nel campo di una scienza che si costruisce come parziale, ma che diventano politiche sbagliate, scelte miopi, come quelle dei ministri delle sanità che non conoscono le corsie degli ospedali con il loro portato di umanità dilaniata. Un assalto al cielo, ci dice in filigrana questo lavoro, possiamo immaginarcelo solo se ricominciamo a sentire noi e gli altri, a partire da quel laboratorio formidabile di verità e intuizioni, di organizzazioni e progetti, che è il nostro corpo.