Non tutta l’archeologia appende la ricerca alle fronde dei salici. A che serve la paleobotanica con la Libia sprofondata nella sabbia? A inseguire con ostinazione il progresso, ancorando lo sviluppo economico alla cultura e alla dignità. Così viene da rispondere dopo aver letto la copertina di febbraio della prestigiosa Nature Plants e aver dialogato con i principali autori dell’articolo: Savino di Lernia, archeologo presso La Sapienza di Roma, e Anna Maria Mercuri, botanica dell’Università di Modena e Reggio Emilia.

LA NOTIZIA È LA SCOPERTA della più antica coltivazione di cereali selvatici, datata a diecimila anni fa, nel riparo sotto roccia di Takarkori, in Libia Sud-occidentale, dove di Lernia scava dal 2003. Il sito aveva già rivelato altre primizie: la trasformazione del latte vaccino a partire dal 5200 a.C. e la cottura di cereali in contenitori di ceramica dall’8000 a.C.
«Due caratteristiche lo rendono unico», spiega di Lernia: «il formidabile stato di conservazione dovuto all’ambiente arido che impedisce la normale attività batterica, tanto che restano perfino delle fascine utilizzate per appiccare il fuoco vecchie di novemila anni, e l’ampiezza dell’area di scavo».
Abbiamo ben chiaro il percorso maestro della specie umana, che dalla caccia e raccolta finisce man mano per domesticare alcune specie animali e vegetali. Takarkori testimonia invece una fase intermedia, di cui sapevamo poco nonostante ne ipotizzassimo l’esistenza almeno nel Vicino Oriente. «Questi uomini – racconta di Lernia – prendevano semi di piante spontanee per stoccarli nella propria abitazione in modo tale non venissero mangiati dagli animali e non germinassero, con l’intenzione di piantarli l’anno venturo. Si tratta di un comportamento che siamo abituati ad associare a specie domestiche come il grano, il farro, l’orzo. Ci troviamo, quindi, al cospetto non di agricoltori neolitici, ma di cacciatori e raccoglitori sofisticati che nondimeno mettevano in campo strategie di gestione delle risorse alimentari per garantirsi maggiori certezze in prospettiva: poter dire ’l’anno prossimo saprò sopravvivere’ rappresenta un cambiamento psicologico di rilevanza eccezionale».

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ANNA MARIA MERCURI ha individuato nei cereali di Takarkori la peculiarità di essere delle piante invasive. La loro wilderness, che non ci piace perché le rende aggressive nei confronti dei cereali considerati nobili, è invece nel deserto libico una qualità su cui queste specie puntano per farsi scegliere dall’uomo, siglando con esso un patto che porta al successo adattativo di entrambi.
La paleobotanica ci illumina sulle trasformazioni del paesaggio e sui cambiamenti climatici, evidenziando l’alternarsi tra periodi segnati dall’abbondanza o scarsità di acqua. Le piante sono poi a Takarkori eccellenti marcatori culturali: la popolazione, oltre che per nutrirsi, se ne serviva per costruire giacigli, cestini e legacci per gli animali.
«Abbiamo trovato nello scavo diversi accumuli di semi», spiega Mercuri. «Li abbiamo raccolti meticolosamente, datandoli al carbonio e ordinandoli quindi in sequenza cronologica. Spiccano mucchietti che sembrano significare uno stoccaggio prima della semina. I tratti morfologici dei semi studiati hanno tuttavia subito lasciato capire che appartenessero a specie selvatiche: un’eccezione».
I generi rinvenuti appartengono alla famiglia delle graminacee e alla sottofamiglia delle panicoidee: Panicum, simile al miglio, Echinocloa, volgarmente detto giavone, e il sorgo selvatico, che crescono ancora spontaneamente nel Sahel. Il giavone, per capirci, è particolarmente combattuto negli Stati Uniti, dove ha fama di mimetizzarsi con la specie domestica infestata.

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A TAKARKORI però tali piante sono state coscienziosamente scelte per quattromila anni, tra l’8000 e il 4000 a.C, proprio perché resistenti ai cambiamenti climatici. Crescono velocemente e producono tanti semi, che non germinano subito perché dotati di dormienza: fattori scartati nella domesticazione, ma utilissimi in una zona arida.
«È un’informazione preziosa per i pianificatori agricoli del XXI secolo», sottolinea Mercuri. «Dimostra come la natura preveda da millenni specie in grado di sopportare meglio il global warming e che oltretutto nel Sahel offrono ancora sostentamento alle popolazioni, nonostante il disinteresse degli agricoltori. Takarkori ne suggerisce finalmente una riabilitazione».
«Sono predictable», aggiunge di Lernia. «A Takarkori sapevano che l’anno successivo le avrebbero trovate. I suoi frequentatori non erano «selvaggi»: producevano una ceramica elaborata e mettevano in atto tecniche di cattura e contenimento di animali selvatici in recinti in pietra. La loro conoscenza delle piante era profonda. Basti pensare all’attualità del Kalahari, dove cacciatori e raccoglitori, tra i pochi rimasti al mondo, sono capaci di sfruttare le proprietà mediche e culinarie di oltre 250 specie vegetali».

NEL CORSO DELL’OLOCENE, in undicimila anni, il Sahara ha vissuto un’altalena di fasi umide e aride, puntualmente registrate a Takarkori: tra undici e otto mila anni fa l’ambiente si presentava decisamente umido; si verificarono in seguito due crisi aride di entità progressivamente maggiore fino alla terza, la più drastica, iniziata da cinquemila anni. Soltanto alcune specie vegetali le hanno attraversate con successo: il sorgo, per esempio, non ce l’ha fatta.
«In sintesi, la ricerca pubblicata su Nature Plants ci dice che le piante selvatiche e invasive presentano a volte caratteri vantaggiosi in termini evoluzionistici», conclude di Lernia. «Eppure nei progetti di sviluppo in aree desertiche tali piante vengono limitate perché ritenute di scarsa qualità, ignorando che hanno sostenuto comunità umane durante la preistoria sahariana, quando sono sopravvissute a cambiamenti climatici radicali e ciclici. Pertanto, in uno scenario globale che vede a rischio desertificazione più del 30 % della superficie terrestre, è fondamentale scoprire che esistono già specie vegetali dotate di caratteristiche naturali vantaggiose in suoli per i quali continuiamo a proporre un modello adatto piuttosto a latitudini diverse».