Si parla tanto di genere in Italia, soprattutto da una prospettiva nostalgico-funeraria, come di un qualcosa che il nostro cinema sembra destinato a non ritrovare più. E invece tutte le manifestazioni più interessanti del cinema italiano degli ultimi anni, vanno nella direzione del «genere».
Basti pensare  ai risultati ottenuti da registi come Stefano Sollima, Gabriele Mainetti, Edoardo De Angelis, Sidney Sibilia, Matteo Rovere e Cosimo Alemà. Ed è interessante osservare come proprio il documentario e il «genere» siano in realtà le forze che maggiormente dialogano fra loro, incuranti della presunta distanza che i tutori dei rispettivi ambiti banalmente rivendicano.

Di questa prossimità, Falchi di Toni D’Angelo offre una lettura privilegiata. Nato come omaggio dichiarato al noir melodrammatico del cinema di Hong Kong degli anni Ottanta, Falchi è un riuscito esempio di racconto metropolitano in grado di mettere in relazione il centro della città con le sue cinture periferiche. Lo sguardo di D’Angelo, per esempio, è molto lontano da quello potentemente iper-realistico di Stefano Sollima, preferendo un approccio in minore, «documentario», appunto, fatto di dettagli e progressive rivelazioni ambientali.

I «falchi», elemento imprescindibile del folclore cittadino napoletano, ma allo stesso tempo tassello concreto del controllo territoriale nella lotta alla camorra, rilanciano da un lato l’immagine e l’iconografia dello sbirro libertario in stile Tomas Milian o Franco Gasparri (la trilogia di Mark il poliziotto) e dall’altro un’idea di cinema quasi da quartiere di cui il compianto Stelvio Massi, con il suo cinema «americano», è stato un indimenticabile campione «italiano».
Toni D’Angelo, però, si guarda bene dal giocare di sponda con la nostalgia cinefila. Il suo è un film al presente indicativo (la scelta di Pippo Delbono è chiarissima in questo senso) nel quale la vera posta in gioco è il rimappare un territorio urbano in trasformazione continua. Il muoversi dei protagonisti fra centro e Hinterland, come in un’orbita continua, è il segno evidente di tutti i flussi urbanistici che a partire dal terremoto dell’Ottanta hanno ridisegnato, fra assenze e colpe, l’identità di Napoli. D’Angelo queste cose le conosce bene e le modalità con le quali stratifica segni apparentemente contraddittori, così come reinventa la città, evidenziano un continuo oscillare dei rapporti in campo. Un incessante ridefinirsi delle economie di strada.

Falchi, che vanta le magnifiche musiche di Nino D’Angelo, è un esempio di narrazione che dal basso tenta di rendere conto delle complessità che attraversano il cinema italiano contemporaneo.
L’approccio a-nostalgico di D’Angelo è la chiave politica di tutta l’operazione che evita sia i feticismi camorristici che quelli banalmente «legge e ordine». C’è un’altra umanità al mondo, e Falchi è il racconto di chi dai margini chiede dignità e diritti. Cinema urbano e popolare, Falchi, del tipo che ti entra in testa e ci rimane come una magnifica canzone di tre minuti. Insomma: quasi un miracolo.