‘Spazio privilegiato di riflessione, casa di quanti non rinunciano mai a farsi domande, luogo in cui cercare il significato profondo del nostro essere e del nostro tempo’. Questo, da tredici anni, è Torino Spiritualità. Nato da un’idea del suo curatore, Armando Bonaiuto, il festival raduna intorno a un tema centrale scrittori, saggisti, giornalisti, psicologi, psicanalisti, teologi, attori, registi, musicisti, per discutere e confrontarsi con il pubblico. Piccolo me, tema dell’edizione 2017 appena conclusa, sottendeva, fra i molti dedicati al bambino che è in noi, un interrogativo tanto drammatico quanto importante: come vivono, come vivranno, i bambini di oggi e di domani su un pianeta dominato dallo scontro tra civiltà; da fanatismo, intolleranza, terrorismo; dalla religione legata e asservita agli interessi economici e politici? Ani Zonneveld, cinquantacinque anni, musulmana, è nata a Kuala Lumpur, Malesia. Figlia di un diplomatico, trascorre infanzia e adolescenza tra Germania, Egitto, India fino al 1981, quando sceglie gli Stati Uniti per laurearsi in Scienze politiche ed economiche. Laurea che subito appende al chiodo decidendo di trasferirsi a Los Angeles e tentare la carriera di musicista pop. Tra il 1991 e il 2005, oltre a realizzare tre album e a scrivere per vari artisti internazionali, Ani vince nel 1996 un Grammy Award con il disco Just Like You, insieme al bluesman Keb Mo’. Ummah, in arabo, significa ‘nazione’. Ummah wake up (Nazione svegliati) è il titolo dell’album e del brano che Zonnelvald scrive sull’onda della tragedia delle Torri Gemelle. Un’esortazione alla convivenza, alla tolleranza, alla riscoperta delle parole del Corano tradite e sepolte dall’integralismo. Nel brano, Ani pronuncia la parola ‘Jihad’, lotta. Ma è una lotta, una jihad, agli antipodi di quella delirante dell’Isis. Giubbotto di jeans, capelli corti, Ani Zonneveld, che mai ha indossato il velo, l’abbiamo incontrata a Torino Spiritualità, nella doppia veste di fondatrice dello MPV, Muslims for Progressive Values, Musulmani per i Valori Progressisti, e in quello di imamah. Un imam donna, dunque. Figura a dir poco rara nel contesto religioso islamico. «Ummah wake up l’ho scritta dopo essermi resa conto che tantissima gente ignorava la profonda differenza tra Islam radicale e Islam progressista. Volevo provare a colmare questo spazio vuoto partendo dalla musica. Nessun negozio islamico in America era disposto a vendere il mio disco. Era cantato da una donna, e secondo la visione ortodossa la voce di una donna deve essere coperta. Poi usavo degli strumenti e questo, sempre secondo gli ortodossi, era proibito. Una vera idiozia che mi fatto gridare ‘basta!’ e mi ha spinto a ristudiare l’Islam». Nell’Occidente cattolico non esiste la figura del sacerdote donna, nonostante si siano levate molte voci per chiederne il riconoscimento e il diritto a esercitare. Lei, a Los Angeles, guida la preghiera del venerdì; celebra matrimoni interreligiosi, omosessuali e transessuali «Come in qualsiasi credo religioso fatta eccezione per quello protestante, la discriminazione è colpa del mondo maschile. Maometto per primo ha dato alla donna la facoltà di condurre la preghiera. In quattordici secoli non è mai avvenuto, ma il nostro movimento si rifà a questo precedente storico». I matrimoni che lei celebra hanno valore legale? «Negli Stati Uniti sì, dato che vige la separazione fra stato e chiesa. Io firmo la documentazione relativa al rito civile, nel quale è sancita l’uguaglianza dei matrimoni. Identica firma metto sulla documentazione del rito religioso islamico, il contratto di matrimonio». Qual è il confine fra integralismo e il rispetto delle regole che la fede islamica detta all’interno delle famiglie? «La miglior spiegazione, per me, è un esempio. Se in una famiglia il marito e padre ha la proprietà della donna, non è differente da un talebano. Certo i talebani sono molto più violenti, ma il concetto di proprietà costituisce di fatto una sopraffazione. La custodia della donna è all’origine del problema. In teoria, custodire una donna dovrebbe aiutarla a emanciparsi, ma è un ruolo che è stato imbastardito, divenendo oppressivo. L’unica differenza tra un marito/ padre e un terrorista è il livello dei soprusi». In Italia la legge che riguarda lo ius soli è oggetto di forti controversie anche fuori dall’ambito politico. Secondo gli ultimi dati, la maggioranza degli italiani contrari alla legge supera quella di chi è favorevole. La paura dell’Islam cresce. Perché? «MVP opera da dieci anni, ed è chiaramente contraria alla teologia radicale. Fatichiamo però molto a far sentire la nostra voce per un semplice motivo: sovente io non vengo consultata perché non vesto ‘alla musulmana’. Quindi non mi si ritiene tale. Dopo l’11 settembre, citando un caso, si chiedevano pareri e opinioni agli esponenti islamici che indossavano un abbigliamento tradizionale. Il nostro messaggio progressista si perde, non è considerato di interesse pubblico perché non sembriamo musulmani. Risultato? Veniamo silenziati su due versanti, dai media occidentali e dai governi integralisti. Aggiungo, sempre rispetto all’Occidente: le notizie negative fanno più notizia rispetto alle notizie positive. Posso scommettere che se ad ogni anniversario dell’11 settembre avessimo bruciato in piazza l’immagine di Osama Bin Laden, saremmo finiti su tutti i giornali e le televisioni. Il nostro lavoro, invece, si svolge sotto il radar. Silenzioso, calmo, direi strategico». In che ambiti e come si muove Muslims for Progressive Values, e in cosa consiste l’iniziativa #ImamsForShe? «MPV agisce sul territorio, battendosi per la giustizia sociale riferita ai principi del Corano. #ImamsForShe è un programma che abbiamo sviluppato partendo da un’iniziativa delle Nazioni Unite, HeForShe. Vi sono coinvolti, accanto agli imam, numerosi docenti, sia uomini che donne. Ogni paese svolge un progetto differente, comunque finalizzato alla difesa dei diritti delle donne e delle adolescenti». Indonesia, Filippine, Malesia, Australia, Cile, Tunisia, la Nigeria di Boko Haram, Burundi le aree di intervento. «In Burundi abbiamo ventisei imam cui è affidato il compito di organizzare dei campeggi sportivi femminili. Alle partecipanti, che hanno un’età media di quindici/ sedici anni, viene insegnato a parlare in pubblico e a sviluppare l’autostima. Gli imam spiegano la teologia islamica in un’ottica liberale, aiutandole a comprendere cosa veramente afferma il Corano quando parla di giustizia. Cerchiamo, insomma, di fornire loro gli strumenti di conoscenza utili ad affrontare la famiglia e la società che vorrebbero sottometterle. Un serio ostacolo è rappresentato dagli imam arruolati dall’Arabia Saudita. Vanno lì a studiare e ricevono un sacco di soldi per tornare in patria a radicalizzare le nuove generazioni”. Non pensa che il vostro lavoro potrebbe essere altrettanto utile in Europa? Ani sorride “Dica all’Europa che ci chiami. Saremmo felici di rispondere”.

BOX

Con Ani Zonneveld, durante l’incontro di Torino Spiritualità, c’era Luciana Capretti, giornalista del TG2 e autrice di La jihad delle donne. Il femminismo islamico nel mondo occidentale, Salerno Editrice. Il testo, frutto di numerose interviste e di un’approfondita analisi teologica e storica, esplora l’universo femminile islamico che, in Europa e in America, lancia la sua sfida, la sua jihad, a pregiudizi secolari universalmente diffusi. Le donne ascoltate da Capretti (teologhe, intellettuali, attiviste) chiedono, in nome di tutte le donne, parità di ruoli, uguaglianza, giustizia, agendo dall’interno di una realtà in movimento fra istanze progressiste e tradizione. Sarà l’Islam ‘in rosa’ a sconfiggere le discriminazioni? Domanda non da poco, che il libro prova, e bene, ad affrontare.