È diventata di moda l’agroecologia, approccio ecologico e sociale ai sistemi agricoli? E’ davvero svolta green nel coltivare il mondo, dopo i guasti della Rivoluzione verde che ha aumentato le rese a suon di chimica ma non ha eliminato la fame e ha indotto una pandemia di obesi mettendo a repentaglio ecosistemi, clima e biodiversità? All’interno della Fao (Organizzazione delle Nazioni unite per l’agricoltura e l’alimentazione) si è costituito un gruppo di lavoro agroecologia fra alcuni paesi molto diversi fra di loro per orientamento politico e anche sistemi agricoli. Tutti ormai parlano di sicurezza alimentare, promozione della salute, diversificazione delle diete, incoraggiamento delle economie locali, salvaguardia degli ecosistemi, miglioramento della fertilità del suolo, preservazione delle culture locali e dei saperi tradizionali. Insomma l’agroecologia, un orizzonte che tiene insieme le dimensioni sociali, economiche e ambientali della sostenibilità, sembra più che sdoganata.

Ma alle parole corrispondono davvero i fatti, a livello internazionale e nazionale? Lo abbiamo chiesto a un pioniere della ricerca in questo campo, il cileno Miguel Altieri, che da tempi non sospetti insegna agroecologia all’Università di Berkeley in California. Nel 2013 ha curato il testo Agroecología y resiliencia socioecológica: adaptándose al cambio climático.

La stessa Francia indossa il mantello dell’agroecologia, quando anni fa in quel paese gli esponenti dell’agricoltura contadina venivano arrestati per la loro opposizione ai McDonald’s in costruzione o per aver sradicato colture Ogm… E’ cambiato tutto?

Dipende da che cosa si intende per agroecologia. Quella che da decenni portano avanti i movimenti contadini è un nuovo paradigma rispetto al modello dominante; punta a una rivoluzione del sistema produttivo agroalimentare, con la valorizzazione di oltre 350 milioni di unità agricole, dimensione media due ettari, che usando pochi input esterni producono fino al 70% del cibo che nutre il mondo. E’ qualcosa di radicalmente diverso dal modello gestito dai colossi industriali e multinazionali.

Il vostro modello di agroecologia è sulla cresta dell’onda, finalmente?

Intanto, si è perso molto tempo, molte opportunità! Per decenni i contadini che la praticavano e lo stesso mondo della ricerca sono stati emarginati. Tuttora le università principali insegnano i principi e le pratiche della rivoluzione verde, non quelli dell’agroecologia, anche se il movimento internazionale La Via campesina è riuscito a creare vere e proprie scuole, soprattutto in America latina. Dopo averci a lungo ignorati, ci hanno ostacolati. Adesso, sembra il momento della cooptazione… Sono in tanti a considerare l’agroecologia uno strumento produttivo come un altro e non un’alternativa radicale alla rivoluzione verde. Va detto che in sé anche l’agricoltura biologica può essere molto diversa dall’agroecologia, ridursi a una semplice sostituzione degli input di sintesi con altri più accettabili.

C’è coerenza nelle politiche pubbliche? Gli incentivi perversi alle forme insostenibili di agricoltura continuano. E, per fare un altro esempio poco agroecologico, allo stato attuale perfino le mense scolastiche africane mangiano cibi globalizzati.

A livello internazionale e nazionale c’è tuttora un grande gap fra il discorso retorico e l’azione. Perché l’agroecologia riprenda piede dovunque, il sostegno deve andare ai veri produttori e attori di questa pratica. E bisogna sviluppare anche sistemi di mercato alternativi, con un’effettiva alleanza alimentare fra piccoli produttori e consumatori a basso reddito – due gruppi di popolazione che a livello internazionale sono la maggioranza. Occorre una completa riconversione del sistema agroindustriale.

Fa parte dell’approccio agroecologico lo scambio di saperi e conoscenze fra coltivatori: una divulgazione rurale partecipativa, come la definisce il movimento Campesino a campesino che nasce a Cuba negli anni 1970 e negli anni 1990 si estende al Centroamerica e ai Caraibi.

Con la società scientifica latinoamericana di agroecologia (Socla) e l’Associazione cubana di tecnici agricoli e forestali (Actaf) stiamo organizzando per il mese di giugno una visita a Cuba da parte di agricoltori e tecnici di Haiti e di altri Stati caraibici colpiti da disastri. Dopo il collasso dell’Unione sovietica e della relativa importazione di input fossili, Cuba – per prima nel mondo – ha sviluppato su scala nazionale un’agricoltura diversificata, che voleva rendersi indipendente dal petrolio e che si fondava sulla disseminazione di conoscenze. Il sistema dà prova di una notevole capacità di riduzione dei rischi, di una resilienza anche agricola di fronte ai fortissimi uragani che imperversano. Per noi queste esperienze sono «fari», meritano di essere visitate. In effetti l’apporto di Cuba all’umanità si esplica anche in questo campo. Peccato che non sia facile ottenere a livello internazionale i fondi necessari per questi progetti. Ce lo ha finanziato una compagnia di prodotti di igiene ecologici che utilizza materie prime verdi…

Cuba è stata il primo paese ad applicare su larga scala anche l’agroecologia in ambiente urbano.

L’agricoltura urbana si sviluppò nell’isola durante il periodo especial, in una situazione di grande penuria energetica: semplicemente non c’era il carburante, non c’erano i mezzi per trasportare il cibo in città…Adesso i prodotti dell’agricoltura urbana finiscono in buona parte nei ristoranti per turisti.

Ps: Dopo una sua visita all’isola, alcuni anni fa, Altieri ha scritto: «I giganti dell’agroalimentare mondiale potrebbero pregiudicare le conquiste dei contadini cubani, con le economie di scala legate alla penetrazione dell’agribusiness. L’espansione dell’agricoltura industriale nordamericana è pericolosa». Insomma, nessuno è al riparo, neanche l’agroecologia a Cuba.