Non può esserci parola che non abbia intrecci molteplici con l’esistenza e l’agire, con il tessuto palpitante dei vissuti che nascono in un mondo comune. L’ego fallogocentrico, dilatato dal culto del potere neutrale della tecnologia e dal ruolo spropositato assunto dal profitto, si è spinto, nel tempo, a ridurre tutte le esperienze e le interazioni delle forme viventi del pianeta, alla solitaria, presuntuosa e artificiale esperienza tra l’homo sapiens e sé stesso. Nessuna visione tecnofoba né indulgenza nei confronti di un idilliaco ritorno alle «verità dalla natura» ci è mai appartenuta, fatto sta che, innegabilmente, «il binomio “biologia-capitalismo” ha permesso di condizionare la riproduzione della vita sul pianeta in modo devastante». Lo scrive Angela Balzano nel suo libro, appena uscito nella collana «Culture radicali» di Meltemi, Per farla finita con la famiglia. Dall’aborto alle parentele postumane (pp. 200, euro 16), consegnandoci un testo, dunque una raccolta di parole, che nasce proprio dal desiderio di indicare i contorni «di una vita non atomizzata ma comune».

RICERCATRICE eco cyborg femminista, studiosa e traduttrice di Donna Haraway e Rosi Braidotti, di Melinda Cooper e Catherine Waldby, Angela Balzano, a partire da una storia inscritta nel vivente, afferma che «la cura e il lavoro ri/produttivo del futuro che stiamo costruendo anelano alla giustizia multispecie e non alla supremazia dell’umano».
Da queste pagine, si spalanca davanti ai nostri occhi la prospettiva di un’etica compostista e postumana. Il sempre più perverso rapporto tra capitale e tecnologia e la vertigine da eccesso di connessioni di questo faticoso periodo mi generano qualche brivido riguardo l’ottimismo postumano, tuttavia resta fondamentale il recupero di quella dimensione ibridativa («convissuti radicati in tessuti e cellule, organi e fluidi») a cui i due termini richiamano nonché il lavoro teorico che hanno alle spalle e che fa da filo conduttore al volume. Lo sforzo è quello di ritrovare, anche attraverso il ricorso a una solida letteratura, da Haraway, senza dubbio, a Sandra Harding, passando per Foucault e Spinoza, un sapere corporeo disperso dall’avvento del capitalismo fino all’orlo del precipizio di fronte al quale ci troviamo ora.

Il pensiero mitologico dell’antichità è notoriamente cosparso di figure che partecipano sia della natura umana che di quella animale. Alcune, come nel caso di Proteo, concepite in perenne metamorfosi. Viceversa, l’essere umano contemporaneo, chiuso nel controllato equilibrio di una humanitas scorporata dall’universo sensorio, alienato dal capitale, affronta oggi le dolorose conseguenze di questa amputazione, e si trova costretto a fare i conti con la fragilità che ne deriva.
Il piccolo virus che, nonostante il ricorso alle continue retoriche guerresche, non può essere virilmente bombardato come un qualunque nemico senza il rischio di perdere anche sé stessi, ha reso palese il problema. Meglio, perciò, allearsi con lui e «interrompere il ciclo schizofrenico della riproduzione capitalista». Balzano cita Haraway e Braidotti le quali «condividono lo stesso desiderio “di sbriciolare e slacciare l’umano in quanto homo”».

TRA CONTINENTI colonizzati, depredati, inquinati e costretti da confini, «fabbriche della natura» con laboratori agro-alimentari e industrializzazione degli allevamenti, veniamo perciò guidate e guidati dall’autrice nell’interregno del compostismo, terra di mezzo scoperta da Donna Haraway. In questo luogo si incrociano e sanno intersecarsi «precarie mammifere» e «animali non umani», «cyborg malmesse» e fili d’erba. In tale territorio compost, ci spiega Balzano, «si tratterà di mettersi d’accordo, di com/pensare nel duplice senso di pensare con e di rimediare», cioè da un lato di aprirci all’immaginazione di «soluzioni alternative alle politiche pro-nataliste e allo sfruttamento capitalista», dall’altro di guardare ai dolori inflitti a troppe forme di vita per le quali l’estinzione non è minaccia ma realtà.

Mi sono ricordata allora, tra tante cose che questo libro richiama, del signor Palomar di Italo Calvino che si interroga sull’alterità indecifrabile e muta degli animali, scrutando la silenziosa tristezza di un gorilla albino nello zoo di Barcellona di cui comprende «l’angoscia dell’isolamento, della diversità, della condanna a essere sempre considerato un fenomeno vivente».
Necessario, in tutto questo, lanciare un progetto politico che punti a superare «i limiti della autopoiesi» dei sapiens e i piani del neofondamentalismo liberista per andare verso «la generazione di parentele transpecie». Perché, anche noi come Palomar, non riusciamo a toglierci dalla testa lo sguardo del gorilla albino che stringe a sé un copertone nella gabbia. L’appello di Haraway, make kin not babies, (generare parentele, non bambini), non va inteso come una provocazione, ma serve a ribadire la centralità dell’autodeterminazione, il ruolo di guida del desiderio, al di fuori di tutti gli imperativi normativi. Piuttosto che fare obbligatoriamente figli per la patria, scrive Balzano, rinascere «Bambina del Compost» e partorire in un bagno «ovuli di silice» utili alle diatomee, alghe unicellulari determinanti per l’ecosistema del pianeta, sorelle arboree che nascono e muoiono in un ciclo che le unisce nella foresta amazzonica. Un desiderio troppo cyborg/eco/queer, «meno valido» di quello che muove la genitorialità umana?

ECCO PERCHÉ la prima parte del libro è una ricostruzione dettagliata della «storia del nostro aborto» in opposizione a quella degli stati nazione che hanno costruito la propria potenza e ricchezza sui corpi delle donne costrette alla produzione del corpo-massa popolazione. Srotolando il filo degli eventi, attraverso il secolo dei Lumi che fa del biopotere una strategia di governo fino ai giorni nostri, il corpo delle donne «diventa la cosa statale e medica per eccellenza», per usare le parole di Foucault. Dalla biologia dei corpi femminili viene espunto il piacere mentre si scava nel loro ventre. Nella propaganda pro-life, un feto fluttua, immenso, nello spazio, godendo di vita autonoma rispetto alla madre e la culla vuota diventa emergenza nazionale.

Si domanda, allora, Balzano: «Saremo capaci di reindirizzare il nostro desiderio di genitorialità alleandoci con le farfalle monaca e accogliendo le persone migranti (di ogni età)?». La riproduzione, aggiunge, «va pensata solo in termini collettivi». Questo è il senso dell’agenda politica proposta dall’autrice per ritrovare equilibrio in un pianeta dominato dalla logica estrattiva del capitalismo occidentale, laddove uomini e donne bianche ed eterosessuali pagano manodopera riproduttiva e rigenerativa migrante, mentre il lavoro di riproduzione e di cura continua a non essere ridistribuito, forzando «sessi, razze e specie rese seconde a compierlo gratuitamente».

Un libro, dedicato «alla marea femminista delle sorelle argentine, polacche e irlandesi», che non può che interpellarci sulla compassione e sul desiderio. Ricorrendo a Deleuze e Guattari, Balzano ricorda che i desideri sono vicini all’erba: «I poveri e i defraudati sanno che il desiderio ha bisogno di poche cose, non le cose che si lasciano loro ma le cose di cui non si cessa di spossessarli».