Cito ancora la storiella di Zerocalcare Quando muore uno famoso, ancora sul suo blog. È clamorosamente di attualità. Sinossi: muore Nap, il pupazzo di Bim Bum Bam mitica trasmissione Fininvest per ragazzi. Di fronte alla mole di messaggi di cordoglio in Rete, Zerocalcare abbozza una timida reazione: «Non vi sembra esagerato usare questi toni da lutto in famiglia?». Travolto da risposte indignate («Ke ne sai di come stanno le altre xsone?»), perde il lume della ragione. Neppure l’intervento di Voltaire in persona («Non sono d’accordo con la tua idea eccetera» «È colpa sua se oggi abbiamo Povia!»), riesce a placarlo. Vagheggia perciò la creazione di una spietata milizia di difesa popolare contro il necrosocial («lei ha espresso dolore per la morte di Josè Saramago ma in casa sua non c’è nemmeno un libro!»).

L’altra sera dopo la morte di Lou Reed quel trio di implacabili blobbisti di twitter auto-ribattezzati Vendommerda ha scovato alcune perle di cordoglio delle nostre star minori. I tweet di Sandro Veronesi «Io sono Lou Reed», e Pierluigi Battista «dopo califano lou reed che tristezza», non male. Quello di Roberto Formigoni: «Lo confesso il suo rock mi ha sempre coinvolto. Rip», già più clamoroso. In allegato parecchie risposte dove si gridava di cuore alla profanazione (Asia Argento, infuriata), s’avanzava della satira politica («Se avesse conservato gli scontrini dei dischi», Lia Celi), s’infilava qualche dubbio garantista («Il motivo per cui il dolore di Formigoni è finto e il nostro è vero francamente mi sfugge», secondo il notista politico Tommaso Labate).

S’apre il dibattito. Le canzoni sono di tutti, chiaro; la retorica sempre scivolosa. La passione per i funerali e i pantheon una malattia tutta italiana, anche a sinistra. Fine del dibattito. Tweet della conduttrice tv Paola Saluzzi, citato dal sito rock.it: «Non ha rispettato se stesso, ma ha rispettato la musica e la libertà«. Marco Mazzocchi, telecronista: «No, non è un giorno perfetto». Pure il Washington Post si accorge del biblista Gianfranco Ravasi che posta una strofa di Perfect Day, la canzone che gioca sull’ambiguità poetica tra la stordita felicità regalata dall’eroina, da un casuale amore, o forse – secondo altri esegeti – dall’esperienza del Divino. Raffinato.

Ma lo scambio che minaccia di restare negli annali è quello tra Emanuele Filiberto e Wu Ming. Emanuele Filiberto (a Lou Reed): «Ciao compagno di una vita!» Wu Ming: «Pensa che noi lo abbiamo sempre istintivamente associato a Gaetano Bresci, Passannante, quella gente lì». Segue breve scaramuccia verbale, finchè Emanuele posta la foto di un cofanetto del disco della Banana con dedica autografa del cantante. Silenzio. I tifosi sugli spalti tremano per i Wu Ming. Li salva in corner un tale Paolo Cintia: «Io ho una copia delle leggi razziali autografata da Vittorio Emanuele». Grazie.

Grazie tutti, per l’allegria. A Zerocalcare per lo sfogo necessario («Se è un cantante devi sapè la tracklist di tutti i suoi dischi!»). E a Lou Reed. Nel 1972, con l’aiuto di David Bowie che fa il coro, scrisse un mini-vaudeville di un minuto e mezzo intitolato New York Telephone Conversation. È una telefonata nella quale due personaggi passano in rassegna i gossip newyorkesi, ispirata probabilmente alla mania di Andy Warhol di stare per ore attaccato alla cornetta come un Twitter antelitteram: «Hai sentito chi ha fatto cosa, e a chi?/ succede sempre così/ … / inaugurazioni, chiusure, botta e risposte./ Ti chiamo soltanto per parlarti/ perché questa notte mi ucciderà se non sto assieme a te». Una vecchia storia pop. Niente di nuovo.