Alla fine del secolo scorso, un’indagine sociologica condotta tra le americane bianche accertò che quelle tra loro che erano state teen agers negli anni ’60 ricordavano quei tempi sulla base non del calendario ma dell’uscita dei dischi dei Beatles: «Successe quando era appena uscito Revolver…».
A decenni di distanza dalla British Invasion, di cui il quartetto di Liverpool era stato nave ammiraglia, il solo elemento sorprendente era scoprire quanto profondamente fosse radicata quella «Beatlemania» che ha rappresentato il più vasto, travolgente e del tutto inaspettato fenomeno di divismo nell’intero Novecento. In realtà, appena un paio d’anni prima che la «mania» esplodesse, sarebbe stato anche impossibile immaginare che una band inglese raccogliesse vero successo, e figurarsi poi che spopolasse, sull’altra sponda dell’Atlantico.

NON ERA NEPPURE lontanamente prevedibile che una band due anni prima sconosciuta doppiasse il record di spettatori in un concerto dal vivo sino a quel momento detenuto da Elvis, inaugurando l’era in cui ancora viviamo: quella dei grandi concerti da stadio. O che delle star del pop si scrivessero le canzoni da sole, presentandosi poi al pubblico acquirente senza un leader riconosciuto e chiaramente riconoscibile, addirittura senza neppure un vero Frontman. Né che un gruppo rock convincesse la casa discografica a investire 2800 sterline, invece delle abituali 25-75, per la copertina di un album, Sgt. Pepper’s, destinato poi a entrare nella storia dell’arte pop, è vero, ma chi lo avrebbe mai immaginato nel 1967?
I Beatles, che piacciano o meno i loro album, hanno cambiato la storia della musica popolare, hanno inventato un nuovo modo di scrivere «canzoni», persino più di quanto non avesse fatto Cole Porter una ventina d’anni prima. Ma hanno rivoluzionato anche il rapporto tra star e pubblico e le modalità di produzione della musica. Sono la pietra miliare nella storia del consumo di massa, un fenomeno divistico unico, a cui si avvicina forse solo il delirio che aveva circondato negli anni ’20 Rudy Valentino. La loro parabola è stata raccontata e descritta in decine di libri e film. La loro musica è stata analizzata nota per nota, seduta di registrazione per seduta di registrazione. Ma Ferdinando Fasce, nel suo appena uscito La musica nel tempo (Einaudi, pp.250, euro 20), vince la sfida, estremamente azzardata, consistente nel riuscire a guardare una storia conosciuta sin nei dettagli da un punto di vista nuovo e inedito.

Fasce somma lo sguardo appassionato del fan, conquistato dalla musica dei Fab Four nel 1964 e mai più disamoratosi, con quello dell’americanista (ma la beatlemania è stata un fenomeno americano ancor più che europeo) e dello studioso di comunicazione aziendale e dei consumi, padrone dunque di strumenti eccentrici e tuttavia fondamentali per ricostruire non la biografia personale o musicale dei quattro musicisti di Liverpool ma l’intero fenomeno Beatles. Rintraccia slittamenti, incontri fatidici, suggestioni, punti di rottura e di svolta, a volte determinati dal puro caso e tuttavia impensabili in una temperie sociale e culturale diversa.

NON CHE LA MUSICA e le stesse biografie dei quattro siano dimenticate o relegate in un angolo. Fasce le coglie però nei loro effetti complessivi. Con una intuizione scintillante, ad esempio, indica l’abitudine dei Beatles, prima del successo, di proporre cover dei gruppi femminili che furoreggiavano all’epoca, come le Shirelles o le Marvelettes, come radice e segnale di una sensibilità «femminile», del tutto fuori del comune nelle band rock di allora, afferrata al volo dalle teenagers.

SARANNO PROPRIO le ragazze, di lì a pochi mesi, a innescare la Beatlemania. Ma anche a esserne protagoniste: in quella tempesta di urli che sovrastavano la musica, soprattutto nei concerti americani, e impedivano persino ai musicisti di sentire quel che gli altri tre stavano suonando, Fasce vede una conquista della scena, un mettersi direttamente a tu per tu con gli idoli occupando un posto pari al loro.
Ma quel fragore, che mai si era sentito neppure nel più scatenato dei concerti, è poi, a sua volta, uno degli elementi che spingono i Beatles, frustrati ed esausti, ad abbandonare la musica dal vivo e il consapevole tentativo di riprodurla in studio per scommettere su una musica creata direttamente in studio, impossibile da eseguire sul palco. L’altro elemento che spingeva in quella direzione discende invece dalla biografia di McCartney, dalla sua frequentazione, tramite il fratello dell’allora girlfriend Jane Asher, con alcuni dei protagonisti della scena underground artistica londinese.

LA SECONDA FASE della vicenda musicale dei Fab Four, e di una rinnovata «Beatlemania», è quella in cui la musica, il cinema, la moda e le arti figurative si incontrano, si intrecciano, sconfinano in una contaminazione quotidiana che non si era mai verificata in precedenza e che è la peculiarità magica della Swinging London, della controcultura inglese così diversa da quella, molto più politicizzata, che sbocciava in California.
La musica nel tempo è la storia di una svolta radicale nella produzione e nella fruizione della musica pop che abbraccia l’intero settore e che non deriva affatto da una pianificata strategia aziendale, ma è invece imposta dal basso da un’onda culturale e scoiale che si sedimenta proprio intorno ai 4 ragazzi di Liverpool.
Perché è prima di tutto intorno alla Beatlemania che nasce ovunque una «comunità giovanile immaginata» che poi, nella seconda fase della breve vita della band, si divide in una quantità di sottogeneri con passioni e culti più specifici. Ed è ancora la musica dei Beatles la testa d’ariete che varca d’impeto non solo i confini tra diversi linguaggi artistici ma anche quelli tra cultura «alta» e cultura di massa. In appena sette anni, John, Paul, George e Ringo hanno tenuto a battesimo quello che a tutt’oggi è il pop. Ferdinando Fasce ha raccontato, in un libro che si legge come un romanzo, quella nascita.