Gli alpini, dunque. Dentro alla disperata e convulsa sacca di Nikolaevka, quando parte dell’allora corpo di spedizione italiano contro l’Unione Sovietica, nel gennaio del 1943, cercò di sganciarsi da una situazione che lo avrebbe altrimenti definitivamente stritolato. È oramai di dominio pubblico la disposizione 1371 del Parlamento italiano rispetto all’istituzione di una «Giornata nazionale della memoria e del sacrificio alpino», individuandola nella data del 26 gennaio di ciascun anno.

Così recita la norma: «scopo del provvedimento è quello di tenere vivo il ricordo della battaglia di Nikolajewka , combattuta dagli alpini il 26 gennaio del 1943 e di promuovere “i valori della difesa della sovranità e dell’interesse nazionale nonché dell’etica della partecipazione civile, della solidarietà e del volontariato, che gli alpini incarnano” (art.1)». Queste le motivazioni addotte, e quindi incorporate nella legge, che – peraltro – era già stata approvata nel suo disegno generale in prima lettura alla Camera dei deputati nella seduta di lunedì 25 giugno 2019. Ora il Senato della Repubblica, con voto pressoché plebiscitario, aggiunge il suo assenso alla proposta di legge che da tempo attendeva un riscontro per potere essere infine approvata e varata in seconda lettura.

AVVERRÀ PROBABILMENTE a breve tempo, essendo parte di un iter ideologico assai più ampio, dove tutti i dispositivi memorialistici repubblicani si stanno progressivamente trasformando da lettura critica del passato ad enfatica rivalutazione di aspetti selettivi di esso: così, per intenderci, anche nei riguardi di un Giorno del Ricordo che è stato quasi completamente colonizzato dalla destra come esercizio di rivalsa. Più in generale, ci si può attendere che il passo successivo sia il ritorno della proposta dell’istituzione dell’«ordine del tricolore», da tempo caldeggiato tra le ipotesi di legge da parte della destra revisionista. Nel nome dell’oramai abituale rimando all’abbraccio mortale tra «le parti contrapposte nella guerra civile del 1943-45», sotto le false spoglie di un’inesistente pacificazione, l’obiettivo è di azzerare la radice antifascista della Repubblica.

CI SONO DIVERSE considerazioni da fare in merito alla giornata degli alpini, così per come è prospettata. La prima di esse è che si usa la storia di un corpo militare per veicolare un fasullo solidarismo, dentro il quale il vero dispositivo pulsante è invece quello di un bieco nazionalismo di ritorno. La seconda considerazione rimanda alla nullificazione che si sta facendo della storia, e con essa del conflitto politico, attraverso il richiamo ad una memoria sentimentale ed affettiva, terreno prediletto proprio dai populismi di ogni tempo.

Per capirci, la storia non è mai una fredda ricostruzione del tempo che fu bensì il riscontro della trama complessa e contraddittoria di una pluralità di attori e scenari. Incorpora quindi le categorie del conflitto e delle asimmetrie di potere. Ritornando all’inizio del 1943, in quella macchina infernale che era l’aggressione all’Urss, i giovani alpini ne furono stritolati. Partecipando ad una guerra di aggressione, voluta dal nazifascismo, non si erano messi dalla parte della colpa ma ne erano stati consegnati, diventandone quindi agnelli sacrificali. La letteratura di quel tempo ce ne consegna il timbro dolente, dal quale – non a caso – sarebbe derivata per certuni la scelta antifascista.

Nikolaevka, quindi, non è il suggello dell’eroismo italiano ma della disperazione di un’intera generazione, che resistette ai russi per continuare ad esistere nella sua umanità. Gli alpini di Nikolaekva erano perlopiù giovani inconsapevoli – Nuto Revelli, Mario Rigoni Stern ed altri ce l’hanno raccontato mille volte – caduti in una furiosa battaglia generata dalla feroce aggressione nazifascista, quindi dentro una colpa politica e ideologica tutta italiana (e tedesca).

EVENTO MILITARE e responsabilità politica non sono separabili. Il dispositivo della proposta di legge è invece imbarazzante, poiché rinnova l’oblio (che intende semmai rafforzare) delle stesse responsabilità politiche, sommergendole dentro una retorica, grondante melassa, di falso umanitarismo. Qualcosa del tipo, «poveri ragazzi…»: sì, ma per quali ragioni furono gettati in quel carnaio dove, segnatamente, se avessero vinto le forze dell’Asse non solo gli ebrei ma anche una parte delle popolazioni slave sarebbero state annientate una volta per sempre? Carne al fuoco e polveri nei mortai, in buona sostanza, per quelle parti politiche che male sopportano la Repubblica antifascista. E con essa la lotta di Liberazione che ne sta all’origine. Tutto il resto è mera retorica, cialtronesca ripetizione di menzogneri vagheggiamenti. Che il dispositivo della proposta di legge, invece, recupera sotto il manto protettivo del solidarismo.

La terza considerazione di merito ha a che fare con la data centrale della battaglia di Nikolaevka, il 26 gennaio, che nel nostro calendario civile è immediatamente precedente a quella del Giorno della Memoria. Se l’istituzione di quest’ultimo doveva contribuire a segnare la discontinuità nelle coscienze civili italiane ed europee, ora invece la bulimia memorialistica sta di fatto parificando vittime e carnefici, oppressi ed oppressori, aggressori e aggrediti. È questa la trama del disegno revisionistico. Che si sostanzia, ed è la quarta considerazione, nella retorica della sconfitta, ossia l’esaltazione dei vinti, che tali furono non perché avessero torto. Vennero semmai sopraffatti da avversari troppo forti, innaturalmente sostenuti da quelli che oggi vengono chiamati «poteri forti».

C’È UN COLLANTE POPULISTA che tiene insieme i pezzi, rendendo fruibile, nel pregiudizio di senso comune, alcuni temi underground della destra radicale neofascista. Quest’ultima, non a caso, si celebra come nume tutelare della memoria dei morti nelle battaglie che lo stesso fascismo scatenò in Europa. Tanatofilia e memoria rischiano così di diventare una sorta di endiadi cupa e triste. A sostenere queste posizioni sono non solo una destra assai poco costituzionale e antipluralista ma anche un centro-sinistra scialbo se non distratto, a tratti connivente e compiacente con non poche spinte regressive, che ritiene qualsiasi forma di cultura politica, e con essa storica, al pari di un fardello oneroso del quale liberarsi non appena possibile. L’unanimismo su proposte che simulano un consenso ragionato altrimenti improbabile, è l’indice del crescente dominio culturale della prima e del completo smarrimento cognitivo, prima ancora che politico, della seconda.

A fronte di un’oramai ossessiva bulimia memorialistica (una specie di meccanismo ad orologeria, destinato prima o poi a disintegrarsi mandando in pezzi tutto quello che fingeva di volere “costruire”), le ragioni stesse per le quali si era deciso di trasformare un ricordo collettivo – quello dello sterminio razzista – in esercizio di coscienza civile, vengono ora progressivamente dismesse, dal momento che si è innescata da tempo una competizione per acquisire lo statuto di vittime (totali, inconsolabili, incontestabili, quindi da onorare sempre e acriticamente) come parte premiante del più generale mercato politico. Nel quale, poi, l’accredito così conseguito viene speso per legittimare un fuoco di sbarramento contro gli avversari.

L’AFFASTELLAMENTO di memorie pubbliche, tra di loro contraddittorie poiché ispirate ad una falsa omologazione tra eventi, protagonisti e scenari non solo diversi ma in antagonismo, produce quindi una sorta di relativismo, dove conta l’eterna intercambiabilità delle sofferenze e null’altro. Tema senz’altro delicato, beninteso. Ma irrinunciabile, nella sua analisi critica, se oltre alla conta dei morti si dice anche – e soprattutto – chi e come questi, piuttosto che quelli, gli uni invece che gli altri, sono concretamente morti: ad esempio, in quale contesto, per quale mano, dentro quale disegno politico e strategico e così via. La sacca di Nikolaevka e i cancelli di Auschwitz non saranno mai due facce della stessa medaglia. I morti sono uguali, le ragioni dei vivi no.