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Una traccia per la Storia

Una traccia per la StoriaLa Casa della Memoria all'Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano: il Piccolo Museo del Diario

Saggi «Diario e narrazione» di Fabrizio Scrivano per Quodlibet, invita a ripensare la scrittura intima come una finzione per una identità collettiva

Pubblicato più di 9 anni faEdizione del 20 giugno 2015

Il diario lascia tracce e queste pongono un problema di realtà. Lo pongono a maggior ragione all’interno di quei dispositivi che, staccando dalla pagina un oggetto scritto, lo consegnano a un pubblico potenziale, in vista di una possibile lettura.
In questo senso, varrebbe per il diario ciò che per una classica sentenza latina vale per ogni scrittura che abbia al proprio centro un’epica del sé che si indirizzi a un altro da sé: scrivere – in questa chiave – è un primo passo per publicare corpus. Per quanto intima possa essere, per quanto segreta, la pratica del diario ha il proprio esito in l’esporsi che – diceva Plinio – e anche un po’ prostituirsi. Bisogna piegarsi, impegnarsi, concentrarsi, impugnare una penna o battere su una tastiera, ricavare uno spazio nel proprio tempo per dedicarsi a un diario. Dietro il diario, c’è un corpo, proprio perché dentro ogni scrittura c’è un corpo. Un corpo che, seppur declinato in prima persona, e per quanto possa apparire paradossale, nel suo Diario e narrazione (Quodlibet, pp. 164, euro 18) Fabrizio Scrivano invita a considerare come «prodotto che non riguarda solo il singolo individuo», ma una pratica del collettivo, indipendentemente dalla consapevolezza personale dello scrivente.

Esistono scrittori – osservava Roland Barthes – e esistono scriventi. Ma nel diario i due estremi si toccano. Come è accaduto, allora, che una pratica di scrittura libera da pregiudiziali di forma come il diario, ritenuta di dominio degli scriventi, sia riuscita a transitare e permanere nello spazio letterario degli scrittori è il tema cruciale del lavoro di Scrivano.

Va detto che una lunga tradizione ha confinato nel diario il paradosso della scrittura senz’altro scopo che non fosse quello, appunto, del lasciar tracce di sé, fissando e cristallizzando frammenti di memoria. In questo senso, non manca mai chi legge l’epica del parlar di sé viene declinata in forma solipsistica, tanto da finire, nella maggior parte dei casi, in bauli o cassetti da cui solo nipoti e pronipoti avrebbero avuto interesse a ripulire la polvere. Celebre la definizione che ne diede Walter Scott. «Che cosa è un diario?», si chiedeva l’autore di Ivanhoe. È «un documento utile per la persona che lo tiene. Sordo al contemporaneo che lo legge e prezioso per lo studente che secoli dopo lo trova come un tesoro».

Il problema di realtà rappresentato dal diario si complica quando di mezzo c’è qualcuno che non trascrive «semplicemente» delle tracce, ma le inscrive nel vivo di quella che, con una certa approssimazione, potremmo chiamare una finzione diaristica. In due luoghi specifici de L’espace littéraire (1955) e Le livre à venir (1959), Maurice Blanchot non esitava a contrapporre diario e opera, soprattutto se a tenerlo è un «autore». In «Recours au journal», pubblicato nell’Espace littéraire, Blanchot rimarcherà la persistente presenza dell’io, della prima persona nel diario. Anche in un romanzo ci può essere «io», ma è (rectius: sarebbe) comunque un io messo in scena da un movimento di «neutralizzazione» dell’esperienza intima, che ne estrae quanto di universale può racchiudere. Molti autori subiscono il contraccolpo dell’opera, della «potenza neutra, senza forma e senza destino che è dietro tutto ciò che si scrive»: proprio per questo cedono alla stesura di un diario. Nel campo del diario, in questa prospettiva – giustamente problematizzata da Scrivano – «autore» sarebbe propriamente e paradossalmente un non-autore: qualcuno che cerca un radicamento contro la potenza neutra che lo sovrasta.

A essere messa in questione dalla rilettura di Scrivano è proprio l’idea di Blanchot che, attraverso la pratica del diario, ognuno possa riavvicinarsi attraverso la scrittura a un destino personale inteso come procedimento inverso rispetto a quello che conduce alla stesura di un’opera. L’io diaristico, per Blanchot, si contrappone a ogni «io» letterario: si muove in uno spazio personale, non in un campo impersonale. Nel Livre à venir, in un capitolo dedicato a «Le journal intime et le récit» Blanchot ritorna sulla questione, stabilendo delle opposizioni elementari. C’è un’opera e nella vita letteraria quest’opera dà vita a un essere neutro. In opposizione, c’è l’uomo qualunque, l’uomo comune, l’uomo della vita quotidiana: è in questa vita quotidiana che si inscrive la pratica diaristica del sé. Ma per Scrivano la questione è giustamente più complessa perché dietro quell’«io», come dietro il corpo che scrive di un’esperienza, c’è una dimensione collettiva dell’identità e delle esperienze che travalica i confini della personalità e ripropone la questione in senso collettivo. Proprio per questo, scrive acutamente l’autore, in un mondo in cui «il diario ha preso il volo», quella di Blanchot «è una posizione che non sembra più sufficiente a spiegare, anzi rischia di distorcere, le dinamiche che portano felicemente la scrittura di casa in casa e di coscienza in coscienza, tramite una circolazione densa tra autore e lettore, tra scriventi e scrittori che rende i sé condivisibili».

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