Come si impara a suonare l’oboe, il violino, la chitarra? Come si apprende l’arte del canto? Secondo François Delalande, uno dei maggiori studiosi europei di pedagogia musicale, i percorsi di apprendimento hanno seguito storicamente, nel mondo occidentale, due strade divergenti.

Da una parte lo studio accademico, praticato principalmente nei conservatori, che consiste nell’apprendere gradualmente il linguaggio musicale tradizionale: l’uso del pentagramma, l’altezza e la durata delle note, l’armonia tonale e, ovviamente, la tecnica dello strumento.

Dall’altra parte, una serie di metodi più intuitivi, naturali, istintivi (Gordon, Kodaly, Suzuki…) che si basano, con le dovute differenze, sul gioco, sull’acquisizione del ritmo, sulla pratica dell’ascolto e della imitazione. La prima strada privilegia l’esplorazione della nota, l’altra l’esplorazione del suono. Una distinzione netta e radicale.

Entrambe le vie – come ricorda ancora Delalande in uno studio prezioso, La musica è un gioco da bambini – possiedono pregi e limiti. Il metodo accademico conduce a una conoscenza fondamentalmente astratta della musica, tende a trascurarne la «fisicità», legando in modo meccanico l’esecutore alla natura parziale del segno scritto.

Il metodo «intuitivo» rischia invece di allontanare il giovane esecutore dalla conoscenza specifica del linguaggio musicale, che è pur sempre regolato dai rapporti di altezza, durata e simultaneità tra i suoni.

Come uscire dunque da questo cul da sac? Come intarsiare insieme, nell’apprendimento di uno strumento, l’esperienza istintiva del suono e la conoscenza del linguaggio musicale? Come creare esecutori, interpreti musicisti, capaci di praticare l’arte dell’improvvisazione con la stessa naturalezza e immediatezza della lettura della musica scritta? Una terza via inizia, proprio in questo volgere di anni, ad essere sperimentata.

Di grande interesse è ad esempio il lavoro «sul campo», promosso dallo stesso Delalande dall’alto della sua autorevolezza, di Emanuele Pappalardo, compositore, allievo di Boris Porena, docente di Didattica della musica nei conservatori italiani. La sua intuizione è semplice e potente allo stesso tempo: la via per superare l’antitesi tra le due «ali» della pedagogia musicale è quella di avvicinare gli allievi alla pratica strumentale non attraverso l’esercizio dell’esecuzione, bensì attraverso la pratica della composizione.

La prima attitudine da coltivare in un giovane musicista dovrebbe essere quella, dunque, di esplorare pazientemente i suoni, di improvvisare ritmi, di ricercare timbri e sequenze. Con l’intento, poi, di organizzarli in una forma e in un tempo precisi, realizzando così una vera e propria «opera»: unica e originale. In questo modo, l’esperienza puramente intuitiva e fisica di un fenomeno acustico si trasforma, sin da subito, in «suono organizzato» e dunque in linguaggio musicale.

La prima «sfida» esecutiva sarà dunque, per il chitarrista, per l’oboista, per il violinista, quella di trasformare in suono il proprio pensiero musicale. Il quale prima andrà messo sulla carta in forma immaginativa, senza indicare altezze, durate e armonie, e poi, gradualmente, in forma più «accademica», ossia sulle linee e gli spazi di un pentagramma.

La ricerca «viva» di Pappalardo, condotta insieme a due gruppi di allievi delle scuole primarie, ai loro insegnanti e ai loro genitori, si è cristallizzata in due volumi «gemelli», pubblicati di recente da ETS, ricchissimi di riflessioni, narrazioni, materiali sonori e visivi: Composizione, analisi musicale e tecnologia nella scuola primaria, che documenta il percorso svolto dagli allievi utilizzando la liuteria digitale, e Composizione e analisi nelle prime fasi di studio dello strumento musicale in cui lo strumento di apprendimento è stata la chitarra.

In entrambi i casi i giovanissimi esecutori dimostrano, con le loro parole, di essere acuti analisti delle proprie composizioni. Spesso assai più consapevoli dei compositori «laureati».