Pensatore radicale, Jerry Fodor non ha concesso sconti ai suoi avversari, né – peraltro – a chi si dichiarava suo seguace. È stato uno dei rappresentanti più innovativi e anticonformisti di quella linea filosofica che va sotto il nome di «funzionalismo mentalista», il cui paradigma prevede che sia possibile indagare la natura umana solo lavorando alla ricostruzione scientifica di un piano cognitivo frapposto tra la scena eminentemente pubblica costituita dal linguaggio verbale e il livello crudamente materiale della struttura neuronale del cervello. Solo in questo modo sarebbe possibile sfuggire all’idea comportamentista secondo la quale lo studio della vita dei sapiens deve confinare l’analisi di stati mentali e credenze all’interno di una inaccessibile scatola nera. Allo stesso tempo, tra gli obiettivi polemici preferiti da Fodor ci sono quelle che definiva le «fantasie bergsoniane dei guru della costa occidentale»: produzioni alla moda di una filosofia allusiva e misticheggiante.

LO SCIENZIATO-FILOSOFO statunitenze ha proposto, di contro, quella «teoria rappresentazionale della mente» – di cui ha parlato in The Language of Thought del 1975: per giustificare lo iato tra quel che si afferma e quel che si vuole dire, tra ciò che si fa e quel che si desidera è possibile postulare un piano intermedio concepito, però, in termini tutt’altro che misteriosi. Per Fodor una teoria rappresentazionale è anche computazionale: ogni rappresentazione mentale godrebbe della caratteristica di poter essere elaborata per mezzo di regole sintattiche riproducibili su un computer.

Il vantaggio di questa proposta è duplice. Per un verso, rende conto del fatto che un pensiero («Jerry Fodor è morto ieri») possa avere lo stesso significato pur basandosi su cervelli fisicamente diversi. Per un altro, queste rappresentazioni non contengono al loro interno nulla di ineffabile essendo, come ogni stringa di programmazione informatica, istruzioni in grado di produrre un risultato (un output su un computer, un comportamento su un essere umano) in un numero finito di passi logici.

La proposta di Fodor ha suscitato numerose critiche: egli chiama infatti questo sistema di rappresentazioni «linguaggio del pensiero» poiché godrebbe delle proprietà sintattiche del linguaggio verbale alla base della differenza che sussiste, ad esempio, tra la frase «Marco mangia la mela» e «La mela mangia Marco». Ma più di un autore ha insistito sul sospetto che la proposta di Fodor finisca col produrre un raddoppiamento metafisico: il religioso spiega il comportamento umano con un homunculus che agirebbe al suo interno (l’anima); Fodor rischia di creare un sosia mentale del linguaggio.

QUESTO ORDINE di critiche non gli ha impedito di sviluppare una seconda direzione di ricerca, correlata alla prima, ancora oggi influente nel dibattito internazionale.
In un libro molto noto, La mente modulare, ha sostenuto la necessità di rivedere anche la nostra immagine dell’architettura mentale umana. È una proposta spregiudicata poiché riprende in modo esplicito alcune ipotesi avanzate della famigerata frenologia di Franz J. Gall, secondo la quale singole funzioni mentali sarebbero localizzate in zone molto specifiche del cervello. Questa tesi ha finito per essere indigesta sia ai suoi detrattori, sia a chi ha cercato di coglierne l’eredità.

SECONDO FODOR, è necessario ipotizzare la presenza nella nostra mente di «moduli», vale a dire di elaboratori automatici dell’informazione in grado di rispondere in modo veloce ma sofisticato ai più diversi compiti cognitivi.
Per il riconoscimento di volti o fonemi, ad esempio, sarebbe impossibile affidarsi alla sola struttura sensoriale di impressioni acustico-visive che cambiano continuamente a causa di fluttuazioni atmosferiche, di illuminazione o intonazione. Il modulo si propone come l’analogo informatico dell’istinto: è in grado di produrre risposte articolate e, nel contempo, automatiche. È dunque una struttura che si distinguerebbe non solo dai riflessi senso-motori della palpebra ma anche dai sistemi centrali sui quali si incardinerebbero facoltà umane più generiche come quelle legate al linguaggio o alla prassi.
Se la prima parte della teoria fodoriana della mente allarma chi diffida di uno studio della natura umana fondato su psicologia e neuroscienze, questa seconda ha finito per deludere i paladini della localizzazione cerebrale e della utilità in termini di selezione naturale di tutte le funzioni cognitive.

IN PIÙ DI UNA OCCASIONE – per esempio in La mente modulare del 1983 e in La mente non funziona così del 2000 – Fodor ha ribadito che è possibile studiare in modo scientifico solo le capacità modulari della mente poiché solo queste capacità hanno un dominio di applicazione specifico (la morfologia spaziale di un viso, le onde acustiche organizzate in fonemi) e dunque computabile. Poiché linguaggio e prassi fanno riferimento a capacità che, per definizione, si applicano ai contesti più diversi, uno studio scientifico della natura umana non può renderne conto.

RECENTEMENTE, contro chi ha utilizzato una diversa versione della teoria della mente modulare per sostenere l’immagine della natura umana composta da tanti moduli scolpiti dalla selezione naturale (la cosiddetta «psicologia evoluzionista»), Fodor ha rincarato la dose. Uno studio computazionale della mente non è neanche interessato all’evoluzione delle strutture sulle quali si realizza il linguaggio del pensiero.
Non è un caso che uno dei suoi ultimi lavori (Gli errori di Darwin, scritto con Massimo Piattelli-Palmarini nel 2010) abbia dato scandalo poiché critica in modo aspro e dettagliato la stessa tenuta epistemologica del darwinismo.