Una storyteller vicina al soggetto
Intervista Un incontro con la reporter statunitense della Magnum Susan Meiselas al festival Fotografia Europea, in occasione della sua retrospettiva «Mediations» allestita presso Palazzo Magnani e visitabile fino al 9 giugno
Intervista Un incontro con la reporter statunitense della Magnum Susan Meiselas al festival Fotografia Europea, in occasione della sua retrospettiva «Mediations» allestita presso Palazzo Magnani e visitabile fino al 9 giugno
La fotografia come visualizzazione di uno spazio in continua transizione tra presenza e assenza, per Susan Meiselas (Baltimora, Stati Uniti 1948, vive e lavora a New York) – autrice dell’iconica Molotov Man scattata a Estelí nel nord del Nicaragua il 16 luglio 1979 e diventata il simbolo della rivoluzione sandinista – implica anche rivelazione, mediazione riflessiva, memoria. A partire dal primo lavoro 44 Irving Street (1971), il suo lavoro viene ripercorso nella retrospettiva Mediations che, dopo varie tappe internazionali e la prima nel 2017 alla Fundació Antoni Tàpies di Barcellona, giunge nelle sale di Palazzo Magnani a Reggio Emilia nell’ambito della 19/a edizione del festival Fotografia Europea (fino al 9 giugno) dal titolo La natura ama nascondersi curato da Tim Clark, Walter Guadagnini e Luce Lebart, promosso e organizzato dalla Fondazione Palazzo Magnani con il Comune di Reggio Emilia e la Regione Emilia-Romagna.
Il coinvolgimento con il soggetto è sempre diretto per Meiselas che sceglie una narrazione «polifonica» che va oltre la soggettività e i limiti stessi della fotografia documentaria tradizionale. Centrali in una ricerca che l’ha portata a tornare soprattutto in America Latina, tra Nicaragua (ha collaborato anche alla realizzazione di alcuni film tra cui Living at Risk: The Story of a Nicaraguan Family), El Salvador e Cile, sono i diritti umani e l’identità culturale. Quanto alla memoria collettiva è determinante nel progetto ongoing sul Kurdistan, nato dall’esigenza di capire gli accadimenti e l’impotenza del non poter fotografare il passato, raccolto nel libro In the Shadow of History (pubblicato nel 1997 da Random House e ristampato nel 2008 da University of Chicago Press), punto di partenza per l’archivio www.akaKurdistan.com che ha sviluppato come piattaforma online fin dal 1998 e che in mostra prende forma nella «Storymap» della diaspora curda.
Nel suo approccio non convenzionale alla fotografia in che modo è stata formativa nel 1971 l’esperienza di lavorare come assistente al montaggio del documentario «Basic Training» di Frederick Wiseman?
È difficile da capire perché il mio progetto 44 Irving Street è stato fatto prima che lavorassi con Wiseman. Però in quello successivo – Carnival Strippers – può darsi che a livello subliminale ci sia stata la sua influenza, soprattutto nel rapporto tra audio e immagini. Quando ho fatto la prima mostra di Carnival Strippers ho usato il suono insieme alle fotografie. Le registrazioni sono state molto importanti già allora e quando il progetto è diventato un libro, pur se era presente un testo, le ho trascritte. Per la seconda edizione, ho inserito un cd-rom con l’audio. Alcuni suoni corrispondono alle immagini pubblicate, ma ce ne sono anche altri che sono altrettanto importanti.
Ulteriori referenti formativi sono stati Danny Lyon e Larry Clark, due fotografi fortemente connessi con i loro soggetti…
Allora era più importante quello che non volevo fare, dato che sostanzialmente non studiavo fotografia. Guardavo la street photography con autori come Lee Friedlander, Garry Winogrand e Diane Arbus e anche se 44 Irving Street è realizzato fatto nella pensione a Cambridge nel Massachusetts in cui vivevo quando ero studentessa, in quello successivo (Carnival Strippers, ndr) è possibile che tra le fonti ci sia stato Danny Lyon e il suo libro The Bikeriders, che mi ha condotta fuori dal mio ambiente. Il lavoro di Lyon ha cambiato il mio approccio alla fotografia perché non ero soddisfatta di produrre solo ritratti.
«La macchina fotografica è una scusa per essere in un posto a cui altrimenti non apparterrei. Mi offre sia un punto di connessione che un punto di separazione»: è una sua frase pubblicata anche nel sito di Magnum Photos a cui è affiliata dal 1976. In quello stesso anno è uscito il suo primo libro, «Carnival Strippers» sulle vite delle spogliarelliste nel New England, Pennsylvania e South Carolina documentando tra il ’72 e il ’75 una parentesi contraddittoria nella ricerca di identità delle donne tra vita pubblica e privata, sesso, maschilismo e avvento del movimento femminista…
Carnival Strippers non è stato un lavoro progettato, è nato d’estate durante un lungo viaggio attraverso gli Stati Uniti che ho fatto nel 1972 con il mio partner (Richard P. Rogers, ndr), fotografo all’inizio della carriera di filmmaker. Solo alla fine di quell’estate ho visto lo show delle ragazze in una piccola fiera e sono stata subito attratta da quelle donne che si mostravano pubblicamente. Era un ambiente in cui le donne non potevano entrare. Sono tornata a fotografarle nelle estati successive per cogliere qualcosa della loro vita. Ho provato a conoscere i manager e anche gli uomini che andavano a vedere quegli spettacoli. La mia era quasi una documentazione etnografica.
In queste foto, le spogliarelliste appaiono consapevoli e padrone di loro stesse…
Sì, erano consapevoli delle idee femministe e si erano appropriate di un modo in cui presentarsi per catturare il piacere degli uomini ma sapevano anche lavorare su loro stesse, su chi erano e ciò che dovevano essere. Penso che si difendessero dal modo in cui venivano guardate dall’universo maschile. Una delle cose speciali di questo progetto è stato il fatto che, dopo aver fotografato, sviluppavo le pellicole e facevo le stampe a contatto. E gliele mostravo perché le vedessero. È stato un passaggio importante nella costruzione di un rapporto. Così potevano capire perché fossi così affascinata e si accorgevano pure che, a ogni passo, quella relazione diventava più profonda. La condivisione è stata importante così come il mio ascolto del loro modo di comunicare sentimenti e pensieri. Avevano chiarissimi i conflitti e le contraddizioni della loro situazione.
Quali erano, all’epoca, le barriere da superare per una donna che intraprendeva la carriera di fotogiornalista?
Prima di tutto non ero una fotogiornalista e il mio progetto Carnival Strippers era completamente indipendente. Non è mai stato pubblicato finché non è diventato un libro. Però il fotogiornalismo è legato a un aspetto che è stato importante nel mio lavoro degli anni ’70 e ’80, quello dei diritti umani in America Latina in un’epoca in cui la stampa era dominante, a differenza di oggi che è quasi più importante postare le foto su Instagram.
Soprattutto in Nicaragua, prima e dopo la rivoluzione sandinista, oltre che a El Salvador, dove fu anche ferita e in Cile durante la dittatura di Pinochet, nelle sue fotografie è particolarmente evidente il contrasto tra la quotidianità e la violenza…
Sì, è esattamente quello che ho voluto mettere a fuoco. La vita di tutti i giorni era stata interrotta ed era evidente lo stato di vessazione continua che si abbatteva sulla popolazione. Ad esempio, la mano bianca dipinta sulla porta della casa di un contadino a Arcatao, nella provincia di Chalatenango in El Savador, era la firma lasciata dagli squadroni della morte. Simboli come questo annunciavano la brutalità e la repressione e io cercavo come comunicare questa oppressione percepita dalla gente. Mi sono catapultata al centro della situazione per cercare di comprendere quei conflitti così distanti da noi.
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