Con il titolo Lo Spirito positivo (L’Esprit Positif) esce in Francia un libro di storia della critica firmato dal critico e cinefilo Eduard Sivière dedicato alla rivista «Positif». Di questa, l’autore dice: «Nota ai cinefili ma poco conosciuta dal grande pubblico, la rivista ’Positif’ pratica l’arte della critica dalla metà del secolo scorso». Vale a dire dal 1952 ad oggi.
Sembra così che la nozione «arte della critica» aiuti a definire il campo d’azione della rivista. È piuttosto il contrario. Nessuno sa bene cosa sia la critica del cinema, ancor meno in che senso essa sia un’arte o ancora cosa debba intendersi con questo termine: un dono, un metodo, una tecnica? In realtà sono le riviste di cinema che definiscono, con la pratica, che cosa debba intendersi per arte critica.

Ecco perché la storia di questa rivista assume un certo interesse anche per il lettore che la ignora. «Positif» è stata per mezzo secolo un certo modo di intendere la critica del cinema. Ma qual è questo modo? Esiste uno «spirito positivo»? Intorno a questo problema il saggio di Éduard Sivière costruisce una storia possibile, certo ristretta e parziale, ma gustosa e inattesa e che tra l’altro è un modo per entrare nella cultura francese, non solo cinematografica, del dopoguerra, tra il surrealismo e la Nouvelle vague e oltre.

Il saggio parte da un dato per così dire «positivo»: l’immagine che oggi «Positif» coltiva di sé è quella di una rivista coerente e saldamente attaccata – da sempre – a certi principi e a certi cineasti. Quest’immagine si è costituita soprattutto per opposizione alla grande sorella rivale, i più famosi «Cahiers du cinéma», i quali invece passano per essere una rivista di bande effimere che fanno e disfanno la storia del cinema. Detto banalmente, l’idea è che, mentre i «Cahiers du cinéma» hanno sempre fatto dipendere il loro giudizio da una teoria (più o meno in fase con le idee e le filosofie in voga), cambiandola molto frequentemente, «Positif» avrebbe sempre tenuto una linea coerente, discernendo da subito la farina (Fellini, Kubrick, Kurosawa, Allen…) dalla crusca (gli autori «trop admirés»): Hawks, Cukor, Lang ma anche Dreyer, Hitchcock, Rossellini, Renoir…

Leggendo il testo di Sivière si scopre che questa maniera di vedere le cose è piuttosto fantasiosa se confrontata con la storia effettiva di una rivista che certo è riuscita a costruirsi uno spazio proprio e un’identità definita ma che sotto le penne dei suoi redattori più noti e leggendari (Kyrou, Seguin, Benayoun) ha in realtà subìto diversi cambiamenti; e che non solo nel corso del tempo ma anche in uno stesso numero è stata solo occasionalmente unanime. È ovvio che questo è piuttosto un segno di vitalità critica che un difetto. Ma com’è che una rivista all’origine vivace come «Positif», che all’inizio rivendicava orgogliosamente il lato amatoriale della critica, si è trasformata fino a fare dell’accademismo e dell’assenza di dibattito interno il proprio stendardo: «Positif» ha sempre avuto la stessa opinione?

Sivière procede per decenni. Una partizione non particolarmente eccitante ma che permette due cose. La prima è di sfatare un mito: è falso che «Positif» non sia stata influenzata dalle idee del proprio tempo. Soltanto, queste tendenze non sono mai state assolute. Per lunga parte della sua storia «Positif» è stata una rivista d’individualità, con alti e bassi, e redattori capaci di giudizi molto liberi ma anche di idee bislacche. Andando alla ricerca di queste tendenze e idee interne, Sivière offre uno spaccato intricatissimo molto gustoso di scrittori brillanti, associando con grande precisione certe idee guida (una per tutte l’erotismo, caratteristico e rivendicato criterio ultra-soggettivo del «positivismo» delle origini), ad un’antologia di articoli. Ma per non essere a sua volta nel puro spirito «positivo», il libro deve porsi una domanda in più : perché ? Perché questa rivista variopinta e generosa ha finito col produrre un’immagine di sé totalmente inversa?

La risposta è in un capitolo dedicato al colui che da trent’anni domina come un monarca assoluto sulla rivista, capitolo sul quale tutto il libro sembra costruito e che prende il nome di «Ciment betonne», traduzione: Ciment cementifica. L’autore è senza pietà: ottimo intervistatore, pessimo critico, Ciment non si sottomette quasi mai all’esercizio del saggio critico, preferendo esprimersi attraverso i suoi innumerevoli editoriali. È vero che Michel Ciment e «Positif» – dal punto di vista dell’immagine – oramai fanno tutt’uno. Ma in che senso Ciment ha «cementificato» «Positif»? Per spiegare, l’autore osserva il «metodo» di Ciment: il quale consiste essenzialmente a riportare un autore ad un altro già riconosciuto.

Segnatamente, per Ciment, il giudizio di un autore su un altro è un criterio essenziale. Ecco che i suoi editoriali giustificano la difesa di un film attraverso una fitta rete di riconoscimenti intrecciati. Ma se un autore giustifica un altro, qual è il principio ? Campion è amata da Bigelow, questa da Lean e Lean da Fellini. Ma chi ama Fellini? È lì che la storia della rivista viene in aiuto. Il principio metafisico del positivismo è un corpo d’autori fondamentali che «Positif»avrebbe sempre difeso, fin dall’inizio, e che fondano il canone per giudicare tutto il resto. Al di là della comicità dell’idea, Sivière ha buon gioco nel dimostrare come tutto questo sia una vera e propria invenzione, un fantasma, una sorta di spirito positivo.