Alzi la mano chi è in grado di ricordare tutte le volte che il piano Marshall è stato evocato nell’ultimo decennio. Il ponderoso volume di Benn Steil Il Piano Marshall. Alle origini della guerra fredda (Donzelli, pp. 550, euro 38, traduzione di Ada Becchi; prefazione di Alberto Quadrio Curzio) dovrebbe servire, se non altro, a far riflettere, prima di pronunciare ancora a sproposito la fatidica espressione. Perché, in questa sua storia densa e accuratissima, chiarisce bene l’autore, uno sguardo ravvicinato e attento alla vicenda del piano di aiuti fulcro della Guerra fredda mostra «quanto fossero peculiari le condizioni» geostrategiche «in cui esso fu realizzato». «Geostrategica» è la parola chiave del libro, come si addice, del resto, a un seguace del celebre storico realista della Guerra fredda John Lewis Gaddis.
SULLE ORME di Gaddis, dietro il piano Marshall, Steil individua infatti una strategia di rigoroso realismo geopolitico. Per definire la quale Benn Steil – che l’economista Alberto Quadrio Curzio definisce nella sua prefazione «studioso di grande autorevolezza che svolge anche ruoli alti nel Council on Foreign Relations di New York» – scomoda addirittura uno dei padri della geopolitica anglosassone, l’inglese Briton Halford Mackinder, attivo da inizio secolo. E che, ricorda Steil (che ha una particolare sensibilità per i dettagli e le coincidenze), morì nel marzo 1947, poco prima dell’enunciazione della Dottrina Truman. È una strategia illuminata dal lucido disegno del diplomatico e teorico di relazioni internazionali, «giocatore di scacchi di talento non eccelso», annota sempre con gusto narrativo Steil, George Kennan, capo del Policy Planning Staff del Dipartimento di Stato. Guidato, a sua volta, dall’ex generale George Marshall, autore del noto discorso programmatico a Harvard nell’estate del 1947 dal quale il progetto prese il nome. È una strategia volta in estrema sintesi a impedire all’Unione Sovietica di dominare, attraverso i partiti comunisti dei singoli paesi, l’Europa occidentale. Anche a costo, un costo accuratamente valutato da Kennan, secondo una stretta logica di sfere di influenza, pur in mezzo a un intenso e irriducibile «scontro di civiltà» politico e propagandistico, di lasciare il campo libero a Stalin nell’Europa dell’Est.
SEGUENDO fra i meandri degli incontri internazionali, nei corridoi dei ministeri e del Congresso statunitense, nell’arena della pubblica opinione, interna e internazionale, Marshall e gli altri protagonisti, da Kennan, ad altre figure chiave come i sottosegretari Dean Acheson e William Clayton, il governatore militare della Germania occidentale occupata generale Lucius Clay, o il manager effettivo dell’agenzia incaricata di gestire il piano Paul Hoffman, Steil ricostruisce la complessa gestazione del progetto. Profila le negoziazioni e le convergenze strategiche americane con i partner occidentali, in particolare i ministri degli Esteri britannico Ernest Bevin e francese Georges Bidault, e le piroette diplomatiche, le «trappole», i successi di tali attori nei confronti dei loro interlocutori sovietici, ben presto arroccati, come testimoniano pagine molto attente ai quadretti di costume e alle psicologie individuali che ricordano certo cinema degli anni Quaranta e Cinquanta, su rigide posizioni difensive e di rimessa e sul ricorso alla forza in casi drammatici come quello cecoslovacco.
Ne mostra l’impegnativa opera di persuasione e di lobbying nei confronti del Congresso e l’armamentario di iniziative di public relations adottate nei confronti del pubblico statunitense. E ci consegna due significative conclusioni. La prima, che taglia la testa al toro di innumerevoli discussioni sugli effetti del piano, dice che in verità, come del resto previsto da Kennan e Clayton, il piano ebbe soprattutto degli effetti piscologici e politici, alimentando «la fiducia in un impegno a lungo termine dell’America per la ricostruzione e la sicurezza europea». La seconda è che, contrariamente alle attese e alle intenzioni di Kennan, il piano fece precipitare le tensioni della Guerra fredda in senso «militare» e funzionò proprio perché fu immediatamente seguito dalla creazione della Nato.
SUL CUI ALLARGAMENTO incontrollato nel dopo-Guerra fredda l’autore, nella pagine finali del volume, ha parole molto dure, denunciandovi una politica di «interventi improvvisati per pacificare interessi in conflitto tra loro». Peccato che da queste pagine, e da quelle non meno dure, antitrumpiane, di Alberto Quadrio Curzio nella prefazione manchi ogni accenno al problema storico della riconfigurazione e del ridimensionamento delle aspirazioni e delle capacità imperiali e di «preponderanza di potere» statunitense dell’ultimo trentennio. Un’altra volta, un altro tipo di libro.