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Una storia d’Italia attraverso il cinema

Una storia d’Italia attraverso il cinema

Cinema «C’è tempo», l'on the road un po' vintage di Walter Veltroni in sala da giovedì 7 marzo. Tra citazioni cinefile e non solo, un romanzo di formazione di due fratelli «per caso»

Pubblicato più di 5 anni faEdizione del 5 marzo 2019

«Le primarie del Pd? Un segnale di luce e io ho paura del buio come della perdita di speranza. Quando si vota c’è sempre democrazia, è sempre un fatto positivo sia votare che fare opposizione». Le considerazioni di Walter Veltroni, all’indomani della vittoria di Nicola Zingaretti come nuovo segretario del Pd arrivano durante la presentazione del suo nuovo film da regista. E a chi gli chiede se pensa di tornare in politica, lui che del Pd è stato il primo segretario e fondatore, risponde che non l’ha mai abbandonata: «Ci sono tanti modi per fare politica» spiega.

«ALLA LUCE» arrivano anche i personaggi di C’è tempo, primo lungometraggio dopo diversi documentari, scritto insieme a Doriana Leondeff, che come ci dicono esplicitamente i titoli di coda, con le immagini delle vecchie sale cinematografiche italiane vuole essere un omaggio al cinema, ai film italiani e ai registi che dialogano in qualche modo con la storia del Pci. Quelli amatissimi come Ettore Scola e quelli che avevano fatto discutere come Bernardo Bertolucci, con i protagonisti che arrivano a un certo punto del loro on the road tra la felliniana Rimini e la bertolucciana Parma, nei luoghi dove è stato girato Novecento, il film che proprio Veltroni e gli altri giovani del Pci – era il 1976 – difesero dalle critiche nettissime dei più anziani come Amendola e Pajetta che non riuscivano a accettare lo sguardo conflittuale di Bertolucci sulla storia, a cominciare dall’amicizia tra il contadino e partigiano Olmo e il figlio dei ricchi Alfredo.

Disseminati nel paesaggio che attraversa la Volkswagen Cabrio nera coi due fratelli «per caso», Stefano, il maggiore (Stefano Fresi) e Giovanni, il minore (Giovanni Fuoco), tra gli incontri che cambiano la vita (una cantante, Simona Molinari, e sua figlia, Francesca Zezza) appaiono La grande guerra e L’armata Brancaleone, molto Moretti e un po’ di Archibugi, I 400 colpi di Truffaut , il film del cuore di Giovanni, tredicenne di oggi ma fuori dal tempo, pazzo per Jean-Pierre Léaud, ricco, serissimo per la sua età, che forse dovrebbe essere un po’ più bambino come gli dice il fratello maggiore Stefano. Che invece è un adulto poco attrezzato all’esistenza, osservatore di arcobaleni – lavoro poetico e molto precario – sposato ma in un matrimonio finito, senza figli, che ama farsi cullare dai ricordi vintage (quei pomeriggi di maggio …) dell’infanzia con la mamma, e dall’immagine del ghiacciolo preferito, l’Arcobaleno, ormai scomparso.

SONO DIVERSI questi due fratelli, del resto non si sono mai incontrati anzi non sapevano nemmeno l’esistenza l’uno dell’altro, il maggiore abbandonato dal padre che non ha mai conosciuto, e assai arrabbiato per questo, il più piccolo affidato a lusso e tata che parla solo inglese ma poco considerato dai genitori.
«Nel buio dell’oggi i buoni sentimenti sono rivoluzionari. E poi sono fatto così, non avrei certo potuto fare un film splatter» dice Veltroni a motivare la sua fiaba. La bontà non è però il problema del film, che sviscerando l’universo veltroniano – non solo film, libri, musica, il titolo rimanda alla canzone di Fossati, si sentono Dalla inedito Almeno pensami, Molinari, lo Stato sociale, colonna sonora di Danilo Rea – sembra voler rinviare a qualcos’altro, all’importanza di una memoria condivisa, che passa in modo un po’ altalenante dal ragazzino – juventino e severo, che sa tutto e non riesce mai a scegliere – lo stesso Veltroni? – al caos del più grande, romanista, fino all’Alzheimer di sua madre (Laura Ephrikian) che chissà se è pure quello comune a una certa generazione (politica ?).

Nella sua «Cosa» romanzo di formazione (o di trasmissione?) Veltroni ricostruisce una storia d’Italia dimenticando però che anche lui ne è stato se non protagonista partecipe, mentre la sua lettura poco permette a contraddizioni e ambiguità. Ma soprattutto dimentica il cinema che basterebbe già visto che come lui stesso dice ha una grande potenza. Dunque perché non usarla?

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