Per comprendere una cultura il classico suggerimento è impararne la lingua. Dialogare con lo stesso idioma permette di vedere quel che prima era invisibile, di interpretare attraverso il vocabolario anche le strutture mentali, individuali e collettive. Nel caso dell’arabo il consiglio è il più azzeccato (basta essere consapevoli del significativo impegno richiesto). Primo passo per il novello studente è imparare le lettere: decifrare i segni sinuosi, il tratto sicuro e dolce, non serve solo a esprimersi ma a entrare in un altro mondo.

SECONDO CONSIGLIO: in presenza di un plurilinguismo, i dialetti locali (dal magrebino all’egiziano, dal levantino a quello del Golfo), meglio focalizzarsi sull’arabo classico, il fusha, dal 18 dicembre 1973 una delle sei lingue ufficiali dell’Onu. Così, a fronte dell’impegno profuso, sarete al riparo dall’infausto pericolo di venir compresi solo dalla metà dei vostri potenziali interlocutori.

Il terzo consiglio è leggere Alfabeto arabo-persiano. Quando le parole raccontano un mondo di Giuseppe Cassini e Wasim Dahmash, (Egea, pp. 296, euro 28). Non un semplice alfabeto, ma un libro di storia, attualità, geografia, letteratura, arte. Dopotutto l’arabo ha le sue prime manifestazioni nel secondo millennio prima di Cristo, lingua semitica accanto al fenicio, l’aramaico e l’ebraico. Di strada ne ha fatta: quattro millenni passati a raccontare il mondo intorno e a reinventarsi non sono proprio una bazzecola. Il libro accompagna il lettore dall’epoca pre-islamica delle antiche civiltà alle guerre di oggi attraverso le 28 lettere dell’alfabeto arabo, quattro lettere addizionali di quello persiano e 61 parole chiave.

Non scelte a caso ma rivelatrici delle culture araba, persiana, islamica, le loro radici storiche e sociali, l’interpretazione del Corano e delle tradizioni popolari, le diverse correnti dell’Islam e l’immenso apporto dato alle scienze mondiali nella sua epoca d’oro, a cavallo dell’anno Mille. I due autori lo fanno con ironia, leggerezza, intramezzando le parole con i racconti dell’ambasciatore Cassini dall’Africa all’Oriente, scardinando le superficiali convinzioni occidentali di oggi. Molto meno di quanto sapessero i nostri avi che con la regione hanno intrecciato per secoli interessi, scambi commerciali e culturali. E anche qualche guerra, più o meno santa.

C’È TANTA BELLEZZA racchiusa tra le pagine, che riproducono la sensualità dei suoni e la dolcezza di termini sconosciuti: in alcuni casi per esprimere un solo concetto in italiano dovremmo usare un fiume di parole, come accade con samar, «il dolce conversare stando seduti o coricati assieme dopo il calar del sole» (chi ha dormito sotto le stelle di un deserto mediorientale o nordafricano, sufficientemente distante dalle luci artificiali delle città, il romanticismo lo coglie al volo). Altri termini ci sono ben noti, ma sconosciuta ne è l’origine (come il persiano paraideiza, «il giardino dove ci sente sicuri e felici», che da noi è diventato paradiso e ovvia ispirazione per chi per primo ha descritto l’Eden di Adamo ed Eva).

C’è anche l’apertura – naturale prodotto di etnie e confessioni diverse che condividono le stesse terre da millenni – verso credi diversi, verso l’amore e il sesso, verso un bicchiere di vino. C’è la rinomata ironia araba, raccontata con citazioni di re, condottieri e principi quando di fronte si trovarono i crociati e le loro poco brillanti ma molto suprematiste aspirazioni. C’è la spiritualità che non necessariamente si trasla nella fede. C’è la rivoluzione culturale in astronomia, matematica, medicina (con i dottori arabi che rimanevano a bocca aperta di fronte alle folli terapie applicate alle corti europee e con il ricordo di Omar Khayam, il primo a teorizzare nel XI secolo che fosse la Terra a girare intorno al Sole e non viceversa).

SULLO SFONDO, ritmata dalle lettere dell’alfabeto, c’è la società, studiata attraverso i suoi nuclei, la famiglia e la umma (la comunità), la religione nello Stato e fuori dallo Stato, la legge islamica e la sua applicazione. E poi la cucina, l’arte della mediazione e quella dell’eloquenza, il principio dell’ospitalità e l’importanza della memoria. Un’abbondanza che da noi è stata malamente tradotta con un precipitoso e approssimativo «salamelecco» che non dà merito del desiderio intrinseco di dedicarsi a sé e all’altro, di prendersi i propri tempi senza fretta, di godere del bello fine a se stesso scacciando le artificiali necessità della rapidità contemporanea.

Infine, ci sono le contraddizioni tipiche di ogni popolo, la storia che si fa conflitto, il radicamento degli estremismi e il transito per epoche buie e soffocanti, sotto l’Impero Ottomano allora e sotto i regimi autoritari oggi. Ma alla fine quel che resta è una finestra su un pezzo di globo così vicino da apparire lontanissimo. La conoscenza diventa unico scudo contro la trappola dell’orientalismo, dell’appiattimento dell’Oriente operato a Occidente – come magistralmente spiegò Edward Said – per definire se stesso in contrapposizione all’altro e per plasmare gli strumenti coloniali che ancora oggi dominano le dinamiche mediorientali e africane.