Ironia della sorte, il dipinto meglio documentato di Caravaggio è l’ultimo realizzato dall’artista, nemmeno due mesi prima della scomparsa: la Sant’Orsola confitta dal tiranno. Il quadro, ora (e fino all’8 aprile) in mostra alle Gallerie d’Italia di Milano, si trova generalmente esposto nella sede napoletana di Palazzo Zevallos Stigliano, cornice ideale poiché la straordinaria dimora custodiva il dipinto dal 1832. Le vicende sono dettagliatamente narrate da Antonio Denunzio nella scheda di catalogo che accompagna la mostra milanese brillantemente curata da Alessandro Morandotti il cui interessante assunto prende il via esattamente dalla storia di questo dipinto: L’ultimo Caravaggio Eredi e nuovi maestri. Napoli, Genova e Milano a confronto (1610-1640). Il Martirio di Sant’Orsola fu infatti spedito da Napoli a Genova, per essere accolto dal suo committente Marco Antonio Doria, il 18 giugno 1610, nel palazzo in vico del Gelsomino, abitato dal gentiluomo intendente d’arte e dal fratello più giovane Giovan Carlo, uno dei più munifici e originali mecenati del Seicento non solo genovese, ma europeo. La documentazione antica mette tra l’altro in luce come la tela caravaggesca dovette essere restaurata dallo stesso artista a poche ore di distanza dalla sua consegna, poiché l’agente del Doria aveva incautamente esposto il dipinto al sole cocente di Napoli provocando un vero pasticcio con la vernice, e ragguaglia così, indirettamente, il moderno lettore su alcuni straordinari dettagli della tecnica caravaggesca.
Il saggio di Piero Boccardo sgombra il campo dagli equivoci, chiarendo come i Doria in questione non abbiano praticamente nulla a che vedere con i principi di Genova, appartenendo a un ramo collaterale della famiglia, che, seppure ricchissimo, si tenne sempre lontano dall’ostentazione. Interessati ad aumentare il volume degli affari familiari, in gioventù Marco Antonio e Giovan Carlo era stati mandati a Napoli dal padre Agostino, per diventare esperti nel settore. Il minore dei fratelli rientrò per primo a Genova, dove divenne un punto di riferimento per il mondo delle arti, tanto che il celeberrimo poeta napoletano Giovan Battista Marino gli dedicò la Galleria, il poema in versi ispirato ai più celebri dipinti del tempo, dove tra l’altro si ricorda che in casa Doria si teneva una vera e propria accademia d’arte. Gli interessi di Giovan Carlo gravitavano sulla contemporanea pittura lombarda, genovese, su Rubens, Van Dyck e Vouet. Anche Marco Antonio non era estraneo alla passione artistica: rimasto a Napoli più a lungo del fratello, acquistò tra l’altro opere di Battistello Caracciolo e di Ribera, anch’esse esposte nella dimora genovese. E soprattutto non gli sfuggì la fama di Caravaggio, sull’onda della quale decise di commissionare al pittore un dipinto forse in onore della figliastra Anna, monaca con il nome di Orsola.
Approdato nella Superba, ci si sarebbe aspettati che il Martirio di Sant’Orsola innescasse una sorta di cortocircuito nel panorama della coeva pittura locale, ma non si verificò nulla di simile. A Genova infatti il quadro non sollecitò quella rivoluzione pittorica che Caravaggio aveva provocato a Roma e a Napoli, così come, aggiungerei, la Canestra di frutta caravaggesca, dal 1607 nella collezione di Federico Borromeo (oggi Pinacoteca Ambrosiana), non fece scuola a Milano.
In realtà qualcuno si era accorto del dipinto: il grande pittore genovese Bernardo Strozzi, che certamente aveva visto la tela dai Doria e ne aveva tratto una personale interpretazione. Già Mina Gregori, però, sottolineava la lontananza stilistica della Sant’Orsola di Strozzi dal modello di Caravaggio, mentre Ferdinando Bologna rincarava la dose, parlando addirittura di «anticaravaggismo», tanto la maniera aggraziata del genovese sembrava lontana dal naturalismo del quadro caravaggesco.
La mostra di Milano permette ora di ammirare i due capolavori per la prima volta accostati l’uno all’altro, insieme a un altro straordinario dipinto, di analoghi soggetto e formato, eseguito da Giulio Cesare Procaccini e frutto di una recente agnizione di Paolo Bonacina e Francesco Frangi. Il pittore, attivo a Milano, fu a Genova nel 1618 a contatto con i Doria, e dunque poté senz’altro vedere la tela caravaggesca di persona. Su questi tre quadri si misura il quesito con il quale Morandotti apre l’esposizione: «Può esistere una storia dell’arte nell’Italia del Seicento senza Caravaggio?». Una vera e forse salutare provocazione in tempi di mostre caravaggesche a oltranza.
Testimoni della difesa sono una serie di capolavori eseguiti tra Genova e Milano tra il 1610 e il 1640, che l’esposizione chiama in causa in un crescendo straordinario. Il culmine si tocca col capolavoro di Giulio Cesare Procaccini, la monumentale Ultima Cena, generalmente esposta in controfacciata nella basilica genovese della SS. Annunziata del Vastato, e qui visibile in via eccezionale, prima che la tela sia definitivamente ricollocata e inghiottita dall’altezza ombrosa della chiesa: un quadro che da solo varrebbe il viaggio a Milano. Procaccini manifesta nell’opera tutta la sua straordinaria grandezza, dimostrando di avere assimilato la lezione leonardesca, filtrandola con ben altre esperienze figurative, in particolare quella di Rubens, che l’artista ebbe modo di vedere a Genova. In casa Doria, infatti, si trovava dal 1606 il bellissimo Ritratto di Giovan Carlo Doria a cavallo, anch’esso presente alla mostra, che il pittore fiammingo eseguì nel suo soggiorno genovese. Con Rubens e Van Dyck dialogano inoltre i notevoli Apostoli che Procaccini dipinse per il più giovane dei Doria, anch’essi schierati nell’esposizione. Con il francese Simon Vouet, altro beniamino del Doria, rappresentato splendidamente dal David e Golia e dal San Sebastiano curato da Irene, si misura invece Bernardo Strozzi, come documenta ad esempio uno dei suoi capolavori, la bellissima Salomé di Berlino.
La mostra spiega che solo intorno al 1640 il caravaggismo invade Genova in modo massiccio, grazie al ciclo di tele di Matthias Stom qui radunate per la prima volta accanto alla Morte di Catone di Gioacchino Assereto, tutte opere che facevano parte dell’arredo del palazzo di Benedetto Spinola. Stom era stato significativamente scambiato da antichi documenti e fonti con Gherardo delle Notti, proprio per l’acceso luminismo che viene puntualmente ripreso da Assereto. La consonanza stilistica dei dipinti è infatti impressionante.
Rapito dall’originalità e dalla qualità delle opere, il visitatore non può a questo punto che convenire con il curatore: la pittura del Seicento in Italia, anche senza Caravaggio, non sembra passarsela male. Rivedendo le tre Sant’Orsole da cui eravamo partiti, ci si trova davanti a quella tutta rosata, zuccherosa e crepitante di Strozzi, una specie di versione per bambini del drammatico quadro di Caravaggio, come quelle trascrizioni dell’Odissea che oggi riempiono gli scaffali delle librerie per ragazzi. L’intonazione scura della tavolozza e la veemenza della santa di Procaccini paiono forse più facilmente accostabili alla lezione del Merisi, ma in ogni caso non si può parlare di tangenze stilistiche. Lo stile è certamente distante, eppure a ben vedere, dal punto di vista dell’ideazione, della regia e della soluzione compositiva né l’una né l’altra di queste opere sarebbe probabilmente esistita senza l’invenzione di Caravaggio. Genova e Milano furono certamente impermeabili al naturalismo caravaggesco, eppure per gli artisti migliori, in un modo o nell’altro, fu impossibile prescindere totalmente dal Merisi, una volta incontratolo anche solo di sfuggita.