Velo sì, velo no. Il dibattito sui rapporti tra Occidente e mondo arabo si limitano spesso al pezzo di stoffa sul capo delle donne di fede musulmana, tirato sia da chi lo rivendica come simbolo di identità che da chi lo bolla come strumento di sottomissione. Ma tra chi lo vuole togliere e chi lo vuole santificare spesso regna ignoranza: del velo l’Occidente sa poco, alimentandosi di stereotipi da tolleranza zero o da esaltazione orientalista. Cerca di fare chiarezza Bruno Nassim Aboudrar, professore di estetica alla Sorbonne. Nel libro Come il velo è diventato musulmano (Raffaello Cortina editore, pp. 207, euro 19) narra una storia, la Storia: partendo dal mondo arabo pre-islamico, passando per i padri della Chiesa cristiana per arrivare ai principi del profeta Maometto, mostra il ruolo che il velo ha avuto nel Medio Oriente e nel Nord Africa, vittime della colonizzazione europea del secolo scorso. Un ruolo giocato sia dalle popolazione autoctone che dagli intellettuali del movimento colonizzatore, fino all’avvento dei movimenti di indipendenza arabi.

Uno dei principali meriti della ricerca di Aboudrar è proprio questo: la centralità della ricerca storiografica, spogliata dagli inutili fronzoli figli delle contrastanti ideologie che ruotano intorno all’Islam. Velo sì o velo no non è la domanda che l’autore si pone, né l’obiettivo dell’analisi. Il fine è spiegare le origini di un fazzoletto di stoffa che fa da discriminante – nella compressa mentalità europea – tra la libertà occidentale e l’oppressione araba.

Eppure quel velo, che tanti dibattiti ha aperto nell’Europa illuminista e che ha prodotto estremismi folli, dove la laicità dello Stato è stata confusa con l’invasione della sfera privata della libertà di religione (come nella Francia che vietò il velo in pubblico), ha radici cristiane. Se in Grecia e a Roma non veniva usato se non per ragioni estetiche, come accessorio delle matrone e simbolo di eleganza, il primo a prevederne l’imposizione a fini di sottomissione della donna è San Paolo nella prima lettera ai Corinzi. Un’imposizione poi ripresa successivamente da religiosi assurti a padri della Chiesa.

Il velo è dipinto come strumento sociale e religioso, mezzo che evita l’adescamento femminile dell’uomo, ma in realtà è altro: è simbolo dell’inferiorità della donna, chiamata a sottomettersi a Dio attraverso la sottomissione alla sua principale creatura, ossia l’uomo.
Secoli più tardi compare nel Corano. In una sola sura, la numero 24: una norma non vincolante, nella volontà di Maometto, dal sapore culturale prima che religioso. Studiosi del testo sacro musulmano convergono su un punto: quella sura fu strappata da adepti conservatori al profeta, poco propenso a prevedere uno strumento di copertura della donna. La sura 24 non impone di coprire il volto, ma fa riferimento ai seni. Nonostante ciò, il velo è diventato nel tempo, scrive Aboudrar, «simbolo dell’Islam pur rivestendo in esso scarsissima importanza». Accompagnerà così il mondo arabo fino alle porte del ’900 quando diviene oggetto di interesse dei coloni europei. Tra gli intellettuali occidentali arrivati in Nord Africa e Medio Oriente da occupanti, la funzione del velo viene occultata: dall’orientalismo spicciolo all’ideologia anti-islamica, l’Europa studia il velo secondo i propri canoni e per servire interessi particolari. È mezzo di derisione della donna, è l’oggetto di fotografie e cartoline umilianti da far circolare in Europa, o all’opposto il simbolo di una sottomissione che le prime femministe europee vogliono cancellare per aiutare le sorelle arabe, inferiori e incapaci di privarsene.

La violenza imposta trasforma così il velo in strumento di resistenza e di affermazione identitaria: per la donna e per l’uomo musulmani quella stoffa diviene il modo per impedire un’assimilazione forzosa all’Europa coloniale, per sfidare l’occupante. E lo è ancora oggi, con lo svelamento imposto nel Medio Oriente e nel Nord Africa dai movimenti nazionalisti, dalla Turchia di Ataturk all’Iran di Reza Scià. Veli tolti in pubblico e marce di donne organizzate dallo Stato in cui le giovani – prive del velo – sono il mezzo arabo per pubblicizzare il nuovo volto dell’Islam, quello moderato e occidentalizzato.

E qui sta l’altro grande merito del libro: mostrare l’importanza della scelta di un intero popolo contro l’imposizione esterna, raccontando con dovizia di particolari il sentimento di accettazione o repulsione vissuto dalle popolazioni sottoposte agli svelamenti di Stato. Umiliazione e violenza in alcuni casi; liberazione, in altri.