Quattro ragazzi talentuosi con una racchetta in mano, un ex campione che si era messo in testa di capitanare una squadra per incidere il nome dell’Italia nell’insalatiera d’argento, il prestigioso trofeo alzato ogni anno dalla squadra più forte al mondo, e poi un paese diviso tra chi riconosceva nel tennis uno gioco appassionante e finalmente alla portata di tutti, e chi si ostinava a posare il suo sguardo sulle barbarie del mondo. I quattro ragazzi erano Adriano Panatta, Corrado Barazzutti, Paolo Bertolucci e Antonio Zugarelli. Il capitano rispondeva al nome di Nicola Pietrangeli. Persone con origini e caratteri diversi, che approcciavano la vita, anche quella sportiva, in modo profondamente personale. Contro ogni calcolo delle probabilità, quei cinque oltre a stare insieme nella stessa epoca, si ritrovarono a condividere aerei, hotel, spogliatoi, ambizioni, programmi e successi. A ricordare quei giocatori e quel paese negli anni Settanta ci ha pensato Domenico Procacci con una miniserie di sei puntate, Una squadra, dal 15 maggio in onda su Sky Documentaries e che ha avuto un’anteprima in sala con un formato più breve. In precedenza, sempre su Sky, Federico Buffa aveva già riportato alla memoria le imprese di quel gruppo, con due episodi che col lavoro di Procacci hanno in comune parte del repertorio e degli aneddoti. La novità è che i cinque protagonisti che trasformarono il tennis in uno sport nazionale, ora si espongono davanti alla videocamera e danno vita a un vera e propria commedia. Un prodotto d’intrattenimento divertente, soprattutto per chi è abituato ai tennisti contemporanei, con lo staff, la dieta personalizzata, il mental coach, la programmazione maniacale non solo dei tornei ma anche delle vocali e consonanti da pronunciare. Era un mondo migliore o peggiore? Rispondere ha poca importanza. È una testimonianza che rinnova la capacità dello sport di auto-rappresentarsi. Inoltre, il punto fondamentale dell’intera vicenda è un altro.

LA VITTORIA della Coppa Davis nel 1976 conquistata contro il Cile, a Santiago, cioè nella stessa città dove tre anni prima l’esercito capeggiato da Pinochet uccise il presidente Salvador Allende e poi migliaia e migliaia di cittadini, torturandoli, sparandogli, gettandoli nell’oceano. Il documentario segue e ripropone le lacerazioni dell’epoca: decidere se andare in Cile a disputare la finale, comprendere in che modo si potesse boicottare una dittatura così feroce e poi se assecondare o meno l’ambizione e la passione sportiva. Quel che sorprende, però, è ascoltare nel 2022 Pietrangeli che dice: «Lo stadio dove non potevi più entrare, già non era così tanto vero, che poi fossero successe delle cose terribili dentro quello stadio, io non le ho viste, e accetto». Tradotto: noi in attesa di giocare la finale entrammo nello stadio delle torture per assistere a una partita di calcio, ma non vedemmo prigionieri e cadaveri. Che poi sia successo qualcosa lo dite voi. Una citazione che andrebbe circostanziata, che forse è frutto di un’irresponsabile leggerezza cinematografica, eppure in quelle parole si rivela il cuore di tenebra, l’idea che l’orrore scritto da Joseph Conrad non sia una semplice fantasia letteraria.