Era il 1964 quando Susan Sontag rintracciava nel gusto del volgare la forma postmoderna del dandysmo ottocentesco: «il dandy vecchio stile odiava la volgarità. Il dandy nuovo stile, il cultore del Camp, la apprezza. Laddove il dandy era continuamente offeso e annoiato, il cultore del Camp è sistematicamente divertito, compiaciuto. Il dandy metteva un fazzoletto profumato davanti al naso e rischiava sempre di perdere i sensi; il cultore del Camp annusa il tanfo ed è orgoglioso della propria tenuta nervosa».

Elementi metamorfici

Dalla profondità disinvolta, quasi casuale, di queste annotazioni sembra ripartire il secondo libro di Ottessa Moshfegh appena uscito per Feltrinelli nella bella traduzione di Gioia Guerzoni: Nostalgia di un altro mondo (pp. 222, € 17,00), una raccolta di quattordici racconti nei quali il disgusto sensoriale si fa metodo d’indagine, il grottesco si tinge immancabilmente di bello e l’oltraggioso ha il sapore del gioco di ruolo piuttosto che del gesto eversivo.
Nata a Boston del 1981 da madre croata e padre iraniano, finalista al Man Booker Prize nel 2016 con il romanzo Eileen, Ottessa Moshfegh difende la sua scelta artistica dall’accusa di volgarità: «Non fa parte del mio lavoro compiacere persone che non tollerano altro che bagni tiepidi». Basta leggere poche pagine per rendersi conto che non si tratta di una posa, e che sperimentare le potenzialità narrative di un’estetica del brutto rappresenta il cuore di questa straordinariamente ironica e intensamente malinconica serie di racconti.

«Detestavo il mio ragazzo ma mi piaceva il quartiere, una collezione di bungalow cadenti e negozi di ricambi auto. Dalla nostra camera si vedeva la vallata, sempre avvolta in una foschia arancione. Era così brutta, così sfigata, che mi piaceva. Nel quartiere tutti camminavano a testa bassa per colpa degli uccelli. Qualcosa in quegli alberi attirava una strana razza di piccioni – neri, zampe rosso fuoco e artigli affilati, con la punta d’oro. Il mio ragazzo diceva che erano corvi egiziani. Odiava quei pennuti. Secondo lui volavano in cerchio sopra di noi, si nascondevano tra le fronde delle palme se passava una macchina della polizia, gracchiavano e strillavano quando a un bambino cadeva il lecca lecca, e ci guardavano nell’anima» (Strana gente).

Nell’ampia gamma delle possibili declinazioni – meschino, goffo, nauseabondo, spettrale, trash – il brutto che compone la materia di queste storie non si manifesta tuttavia come rovescio dialettico del bello, ma come elemento metamorfico che intensifica e potenzia la bellezza, seppure nella forma della Sehnsucht e della nostalgia. «La incontrai due giorni prima di Natale a un mercatino improvvisato nel Lower East Side. Era il 2006. Indossava pantaloni aderenti rossi e una maglietta nera che sembrava il body di una ballerina. Aveva i capelli crespi, biondo ossigenato, e molto trucco, troppo direi. Aveva il viso contratto, come se avesse appena sentito qualcuno fare una puzza. Dovevo sposarla. Se non ci fossi riuscito mi sarei suicidato» (Danzando al chiaro di luna).

Studi del carattere

Per Moshfegh la causa efficiente del racconto è sempre, classicamente, uno studio di carattere: «sono interessata a capire come un personaggio immagina la propria realtà, naviga, sbaglia e la ricostruisce, molte vite non vanno da nessuna parte e la cosa interessante è ciò che accade dentro in quel momento», dichiara in un’intervista alla Los Angeles Review of Books il 17 gennaio 2017. Senonché, l’impulso verso una qualsivoglia rivelazione epifanica che reinvesta di senso e dignità queste esistenze alla deriva è ostacolato dal fatto che in esse il confine tra interno ed esterno è sfumato e scivoloso, e che le traiettorie disegnate dai loro movimenti nello spazio e nel tempo e dalle loro percezioni sono tutte inconfondibilmente opache e smarginate.

Da un simile comune denominatore discende l’impressione di forte compattezza creata da questi racconti che, pur presentando una variegata tavolozza di tipi umani, ambienti, situazioni e linguaggi, perseguono un’unità tonale di fondo, riconducibile a quella speciale alchimia di abominio e tenerezza sulla quale, sempre secondo Susan Sontag, si radica la sensibilità Camp: «il gusto Camp è una forma di amore per la natura umana. Assapora, anziché giudicare, i piccoli trionfi e le goffe intensità del “carattere”. Il Camp è un sentimento tenero».
A siffatto orizzonte sensoriale rimanda l’ossessione dermatologica che caratterizza l’universo narrativo di Moshfegh, i cui personaggi sono tutti affetti da qualche patologia della pelle oppure irresistibilmente attratti dalle sue deformazioni più ripugnanti. «John avrebbe potuto fare il cardiologo, invece aveva fatto dermatologia. Alle feste lasciava tutti a bocca aperta con le descrizioni di pustole e sfoghi di escrescenze, strani problemi ai capelli, brutte cicatrici, cisti piene di pus, lentiggini bizzarre, cancri, nei». Rimasto vedovo dopo una vita di devozione a una moglie castrante, John si convince di essere stato tradito con un gigolo proprio in occasione del loro ultimo viaggio ai Caraibi, e si abbrutisce nell’inutile ricerca del ragazzo (Il ragazzo della spiaggia).

In Una strada lunga e tortuosa un giovane avvocato newyorkese si rifugia nella baita di montagna nella quale andava in vacanza da bambino, dopo un litigio con la moglie incinta. Atterrito dall’incipiente paternità e forse anche da una eterosessualità forzata, l’uomo si lascia divorare dal ricordo di un fratello fisicamente prestante che, pur avendo avuto «una terribile acne cistica, grosse pustole rosse che schiacciava con disinvoltura guardando la tele», non era mai preoccupato dell’aspetto perché «era un vero maschio».
In Malibu il disoccupato che inventa un numero di telefono per la richiesta del sussidio e lo compone per gioco, riesce ad abbordare la ragazza che gli risponde dichiarando di avere «i brufoli e uno sfogo su tutto il corpo». In Qui non succede mai niente la materna settantenne che accudisce un aspirante attore a Hollywood ha le braccia chiazzate, la pelle del viso «tanto tirata verso le orecchie che sembrava sempre stupita» e il trucco che ricorda «il cerone da teatro, o anche quello che mettono sui cadaveri nelle bare aperte».

In cerca di riscatto

In La stanza chiusa, il talentuoso violinista dark che rimane bloccato nella sala esercitazioni di un auditorium scolastico insieme alla fidanzata claustrofobica «si morde continuamente le labbra, il sangue gli gocciola sul mento» e «ha la faccia piena di cicatrici perché si schiaccia i brufoli con le unghie sporche e mangiucchiate».
Nel mondo umorale e maleodorante nel quale si muovono i romantici personaggi di Ottessa Moshfegh, il richiamo espressionistico alle alterazioni epidermiche somatizza l’urgenza di un riscatto tanto agognato quanto inattingibile. Alla fine, nessuna di queste esistenze sospese rimane impressa nella sua singolarità. A perdurare è l’impatto strug gente di una voce sola che racconta l’oscenità del vivere e, sottilmente, se ne gloria.